Introduzione.
Terry Gross,
presentatrice della trasmissione radiofonica Fresh Air, la web radio
del magazine WHYY, ha realizzato nell'Agosto del 2010 questa
intervista a Brian May, al quale a rivolto alcune domande inerenti i
numerosi interessi del musicista. La conduttrice ha presentato ai
suoi ascoltatori Brian, definendolo un moderno uomo del rinascimento,
un appellativo che ormai da alcuni anni rappresenta una sorta di
biglietto da visita del chitarrista. Con i Queen ha raggiunto i
vertici di tutte le classifiche, vendendo nel mondo 300 milioni di
copie. Ha suonato il famoso assolo di chitarra di We Are The
Champions e ha cantato le parti vocali basse nel singolo Bohemien
Rhapsody, senza dimenticare che è anche l’autore di We Will Rock
You e, secondo la rivista Rolling Stone, è tra i primi 100
chitarristi di sempre. Ma gli interessi di May non sono limitati al
solo mondo della musica. Prima che i Queen diventassero grandi,
Brian studiava astrofisica all’Imperial College di Londra.
Costretto ad accantonare
gli studi per poter suonare in giro per il mondo con i Queen, le sue
conoscenze scientifiche si sono comunque rivelate utili anche per la
band quando si è trattato di sperimentare nuove soluzione per
incidere dei brani in studio. In We Will Rock You, ad esempio, May
realizzò il suono del famoso “mani-mani-piedi” che caratterizza
il pezzo in modo tale da dare l’impressione che i battiti fossero
fatti da centinaia di persone (ricordiamo che all’epoca, siamo nel
1977, non esistevano computer in grado di realizzare simili effetti,
n.d.t.), sfruttando le sue conoscenze sulla propagazione dei suoni.
(Lo show radiofonico
si apre con uno scorcio sugli anni 80 con Another One Bites The Dust,
che offre alla conduttrice Terry Gross lo spunto per presentare il
suo ospite.)
TG: Questa è la band
chiamata Queen. Il mio ospite, Brian May, è uno dei fondatori e
chitarrista del gruppo. In tempi recenti si è occupato di vari tipi
di “polveri” (dust in inglese, n.d.t.). Esattamente tre anni fa
ha conseguito il suo PhD in astrofisica con una tesi dedicata alle
polveri interstellari. Oggi è il Dr. May, nonché cancelliere della
John Moore University di Liverpool. Ma questo non è l’unico
aspetto capace di sorprendere i fans dei Queen. Brian May è anche il
co-autore del libro “A Village Lost and Found”, che raccoglie
foto stereo risalenti al 1850. Le immagini furono realizzate dal
primo fotografo specializzato in foto stereoscopiche (l’antesignano
del moderno 3D per intenderci, n.d.t.) T.R. Williams, che ritrasse il
villaggio dove era solito trascorrere l’estate. Per poter vedere
l’effetto 3D è necessario indossare un paio di occhiali speciali,
realizzati dallo stesso Brian May e venduti assieme al volume. Nella
vita di May come membro dei Queen è famoso per i suoi assoli di
chitarra e per aver scritto la celeberrima We Will Rock You. Il
cantante del gruppo, Freddie Mercury, è morto invece nel 1991. Prima
di parlare di musica, vorrei ascoltare il Dr. May sul suo nuovo
libro.
TG: Brian, è un
piacere averti qui con noi. Negli ultimi 25 anni hai lavorato a
questo tuo progetto sulle foto stereoscopiche. Puoi raccontarci come
è nata questa idea?
BM: E’ la magia dello
stereo, penso, diventata conosciuta come il 3D del 1850, anche se è
ancora più risalente nel tempo, in un’epoca di fatto molto vicina
alla nascita della fotografia stessa. È straordinario assistere a
cosa accade a due immagini speculari una volta che le puoi guardare
assieme con il visore. Improvvisamente puoi vedere una sorta di
finestra virtuale, attraverso la quale puoi osservare il mondo. Oggi
tutti possono capire di cosa parlo grazie alla visione del film
Avatar. Ma quando noi abbiamo iniziato a lavorare al libro, ho dovuto
spiegare alle persone cosa fosse il 3D, in cosa consiste. Oggi invece
viviamo in un’epoca fortunata in cui c’è il boom della
stereoscopia e del 3D. Per cui per noi è bello poter mettere un po’
d’ordine nella questione e mostrare alla gente cosa si faceva giÃ
nel 1850.
TG: Possiamo dire che
questo è un progetto a cui lavori davvero da molto tempo, giusto?
BM: Assolutamente. Credo
sia qualcosa a cui pensavo già prima dei Queen. Ero interessato a
questo argomento già a nove anni. Per cui posso dire che ha
attraversato la mia vita e mi sento fortunato ad aver avuto la
possibilità di coltivare questa passione e altre, tanto da aver oggi
chiuso dei cerchi aperti anni fa, come l’astronomia ad esempio.
TG: E’ qui la cosa
straordinaria secondo me. Hai coltivato delle passioni completamente
diverse da ciò che facevi con i Queen, cose che richiedevano
quiete e solitudine.
BM: Si. E’ sempre stata
una bella cosa avere l’opportunità di cambiare scenario. Nei
giorni trascorsi con i Queen, quando eravamo in tour, mi svegliavo la
mattina e pensavo: “Sono a Philadelphia per l’ennesima volta
nella mia vita. Cosa posso fare?”. Molte volte mi sono alzato e
sono andato in giro per la città a scattare fotografie, che è
sempre stata una mia passione, e ho trovato gente proveniente da ogni
parte del mondo. Persone provenienti dal Giappone, Sudamerica, Nord
America, da ogni angolo d’Europa che erano interessate alla
fotografia stereo, alla stessa identica cosa che appassiona anche me.
Così per un po’ di tempo ho ricercato il materiale di T. R.
Williams, ovvero dell’uomo che ha fotografato il villaggio dove era
solito passare l’estate e sul quale ha scritto anche delle poesie,
che rappresentato una parte davvero importante del suo lavoro.
Parte Seconda: come
nasce un inno.
TG: Per prepararmi per
questa intervista ho ascoltato molto del vecchio materiale dei Queen
e ho trovato cose molto divertenti e altre più drammatiche, un mix
tra teatralità , rock e opera. Per cui se sei d’accordo vorrei
chiederti alcune cose sul tuo lavoro con i Queen. E vorrei partire
con il parlare di una canzone in particolare, We Will Rock You. Da
cosa ti è stata ispirata questa canzone? Penso che negli anni sia
stata suonata una moltitudine di volte negli stadi sportivi. A cosa
pensavi quando l’hai scritta? La consideravi già un inno sportivo?
BM: No, no davvero. La
consideravo più di un inno rock, suppongo, qualcosa che creasse una
connessione con il pubblico, perché mi piaceva il fatto che la gente
ne restasse coinvolta. È meraviglioso per me vedere cosa è stata
capace di fare We Will Rock You. Questo brano assieme a We Are The
Champions hanno qualcosa di trascendentale che travalica i normali
standard di una canzone, sono diventati parte integrante della vita
del pubblico, il che è meraviglioso. Per me è fantastico andare
allo stadio a vedere una partita di calcio, basket o qualsiasi altro
sport e sentire che questi due brani ci sono. E ogni volta penso:
“Mio Dio, molta gente non sa che questo pezzo l’ho scritto io!
Per molti non si tratta di canzoni scritte da qualcuno. Sono
diventati brani che per la gente ci sono sempre stati e questo, in un
certo senso, è il più grande complimento che puoi ricevere per una
canzone.
TG: Penso che questo
possa dipendere dal fatto che il suo tipico incedere è utilizzato in
tanti ambiti, compreso quello delle cheerleader scolastiche….
BM: La famosa base di We
Will Rock You non era nemmeno prevista nella versione originale del
brano. Fu un’idea che sviluppammo dopo un concerto particolarmente
movimentato che abbiamo tenuto vicino Birmingham, alla Bingley Hall.
Il responso del pubblico mentre suonavamo fu enorme, cantavano
praticamente tutto ciò che facemmo. Ricordo che dopo lo show ne
parlai con Freddie Mercury e lui mi disse ‘Ovviamente non possiamo
combatterli a lungo. Ormai è qualcosa che che fa parte dei nostri
spettacoli e dobbiamo trovare il modo di renderlo parte integrante,
perché la gente vuole essere partecipe’. Così io e Freddie ci
guardammo e gli disse che era una cosa interessante. Dopo il
ragionamento fatto con Freddie andai a casa a dormire e il mattino
dopo avevo in testa il ritmo con il battito di mani e piedi. Pensavo:
“Cosa puoi dare alla gente che possa fare quando viene ai nostri
concerti?” La risposta era logica: potevano battere le mani e i
piedi e potevano cantare qualcosa. Dal mio punto di vista queste tre
cose dovevano fondersi in un unico elemento. Era un espressione di
potenza. Ho pensato a questo brano come a qualcosa che fosse di più
di un inno, il mio obbiettivo era soprattutto quello di creare unitÃ
con il pubblico… mi piaceva il fatto che la gente fosse un
tutt’uno. Non ho realizzato subito che potesse anche diventare un
inno sportivo. Questa è una cosa magnifica e per me è meraviglioso
vedere cosa ha fatto We Will Rock You.
TG: E del protagonista
della canzone, di questo ragazzo raccontato nel pezzo, cosa puoi
dirci?
BM: Si, il testo di We
Will Rock You descrive lo sviluppo di un ragazzo che diventa un uomo,
racconta i suoi sogni, di come vede se stesso e dei modi attraverso i
quali può mettere a frutto le proprie potenzialità nel mondo. È
una sorta di canzone contemplativa, che affronta il tema
dell’equilibrio tra potenzialità da mettere a frutto con
l’accettazione dei propri limiti.
TG: Spiegaci come sei
arrivato all’idea definitiva della canzone.
BM: Avevo questa idea in
mente, che se avessimo avuto tempo a sufficienza avremmo potuto
creare un suono che poteva funzionare anche senza l’uso del
riverbero o altri effetti. In questo senso siamo stati fortunati
perché abbiamo potuto lavorare in una vecchia chiesa in disuso nel
nord di Londra che aveva davvero il suono giusto. All’interno
c’erano solo alcuni vecchi banchi che si rivelarono perfetti per
batterci su con i piedi. Così li mettemmo tutti assieme e iniziammo
a batterci su e il suono che venne fuori era davvero grande. Ma io
ragionavo con la mente del fisico, così mi domandai: “Cosa
accadrebbe se a fare questo suono fossero mille persone?” La
risposta che trovai fu questa: se volevo sentire mille persone che
replicavano ciò che facevamo noi in quattro, il suono andava
replicato, non con un effetto di eco ma registrando il tutto da varie
distante. Oggi la gente può fare una cosa del genere affidandosi
alle macchine, ma all’epoca questo fu il metodo che noi usammo per
raggiungere lo scopo. Quando registrammo le varie parti, mettemmo
tutto insieme inserendo un ritardo tra un’incisione e l’altra. E
nessuno dei ritardi (delay in gergo tecnico, n.d.t.) erano
armonicamente connessi tra loro. In questo modo evitammo l’effetto
eco, tranne per il suono delle mani che battono, che si dilata
attorno dando la sensazione per l’ascoltatore di trovarsi al centro
di una grande sala circondato da mille persone che battono tutte
assieme.
TG: Ecco, secondo me
c’è anche un altro aspetto interessante su We Will Rock You. È la
canzone più famosa che hai scritto. Ed è prevalentemente una
canzone a cappella (cioè quasi interamente cantata senza l’apporto
di strumenti, n.d.t.). Il tuo assolo di chitarra arriva praticamente
solo alla fine della canzone. E in questo senso penso sia incredibile
che un chitarrista come te abbia scritto un pezzo in cui di fatto non
fai quasi nulla.
BM: Beh, il battito di
mani e piedi è mio. E canto anche
TG: E in questo sei
davvero bravo!
BM: Ah grazie! Noi
abbiamo fatto tutto in quel pezzo. Si, la canzone non riguarda la
chitarra, è più indirizzata alla voce, al cantato. Sai, penso si
possano fare grandi cose con la produzione e io adoro produrre. La
produzione ha riguardato gran parte della mia vita. Ma ho sempre
temuto che senza un cantante adatto, non fai altro che sprecare il
tuo tempo. Per cui, secondo me, una canzone è una canzone, non è
nient’altro che questo. Ciò che occorre è la giusta canzone e il
giusto cantante, nonché la necessaria passione in quello che fai. A
proposito delle chitarre, si, noi non volevamo essere ripetitivi. Non
volevo che We Will Rock You fosse la canzone in cui c’è l’assolo
di chitarra e poi il cantato. Volevo qualcosa di completamente
diverso dal solito. Per cui, la presenza della chitarra solo alla
fine del pezzo è qualcosa di assolutamente voluto, perché doveva
rappresentare un momento diverso all’interno della canzone stessa,
in modo da conferirle una direzione diversa. Non è una canzone pop
standard.
TG: Adesso suoniamo
proprio la parte finale di We Will Rock You, così puoi offrirci
qualche altro commento. (Viene fatta ascoltare l’ultima parte della
canzone e Brian dice la sua, n.d.t.).
BM: Interessante che tu
abbia suonato il finale della canzone. Si può sentire come la
chitarra resti sospesa nell’aria. Quindi la chitarra c’è, è
presente, ma non al centro del palco, ma subentra attraverso l’ultimo
coro e all’improvviso esplode. E puoi anche sentire in sottofondo
Freddie che dice “All right”, che è un modo per dire che la
chitarra ora prende il sopravvento e si entra in una dimensione del
pezzo totalmente differente, e l’intenzione in effetti era proprio
questa. È una cosa davvero informale. Non c’è il grande finale,
si interrompe all’improvviso e ti porta a dire: “Hey, cos’è
successo?”
Parte Terza: la
nascita di Bohemien Rhapsody.
TG: La musica dei
Queen è sempre stata un mix di hard rock, musica teatrale e
operistica. E quando consideri la media dei fans dell’hard rock
degli anni 70 e 80, si può dire che la maggior parte di loro non si
interessava né di teatro né di opera. E questa è una cosa
incredibile, perché siete riusciti a creare un mix di tutti questi
generi che ha conquistato persone che erano principalmente amanti
dell’hard rock. Sei d’accordo con me quando dico che questo è
stato un mix insolito?
BM: Si ma ribadisco che
non è stata una cosa deliberata. Non è stato pianificato. Abbiamo
solo tirato fuori tutto quanto ci piaceva. Penso che come ragazzi
fossimo esposti ad ogni tipo di materiale. I miei genitori erano
appassionati di musica classica e io ne ho ascoltata parecchia
proprio per questo mentre crescevo. Inoltre quando eravamo ragazzi la
radio era davvero diversa da quella di oggi. All’epoca il nostro
programma preferito era “Uncle Mac’s Children’s Favorite”,
nel quale potevi scrivere per richiedere la tua musica preferita, ma
non c’era il rock e nemmeno il pop che all’epoca nemmeno
esisteva. C’era gente che scriveva per richiedere cose come “The
Thunder and the Lighting Polka” o “The Laughting Policeman”! o
magari qualcosa delle band di jazz della scena di New Orleans. Quindi
ognuna di queste cose si è mescolata per noi ragazzi fino ad
influenzarci. Sicuramente non conosci un artista chiamato Mantovani,
che suonava vari strumenti a corde come violini, viole e cembali. E
lui è un artista che ci ha influenzati, tanto da essere presente
nella nostra musica. E poi c’erano Buddy Holly, che dio la
benedica. E i Crickets.
TG: Quando avete
conosciuto Freddie Mercury, vi ha mai spinto verso una certa
direzione cui non avevate mai pensato prima, ad esempio in fatto di
costumi o teatralità ?
BM: Sicuramente per quel
che riguarda i costumi si. Ricordo quando Freddie non faceva ancora
parte della nostra band e venne ad assistere ad un nostro concerto.
Ci chiamavamo Smile all’epoca e lui ci disse: “Grandi,
meraviglioso, incredibile. La vostra musica è grandiosa. Ma sapete,
non siete vestiti nel modo giusto, non avete le luci giuste e non
siete drammatici. Dovreste essere uno spettacolo.“ Per cui Freddie
ci ha influenzati molto per quanto riguarda i movimenti sul palco, al
fine di renderli più teatrali, più connessi con il pubblico. E
questa fu una grande cosa. Si, Freddie fece parecchie cose per noi
che, ne sono sicuro, non avremmo mai pensato da soli.
TG: Uno dei brani più
anticonvenzionali e teatrali che Freddie Mercury abbia mai scritto è
Bohemain Rhapsody. Come vi presentò il primo demo di questo pezzo?
BM: Si sedette al
pianoforte e iniziò a cantare “do-do-do, da-da-da”; poi ci
disse: “A questo punto inizia la parte a cappella e poi noi
torniamo a suonare subito dopo”. Aveva tutto già pianificato e
sapeva come avremmo fatto. La base venne realizzata solo con
pianoforte, basso e batteria. Dopodiché iniziammo le
sovrai-incisioni di pianoforte, chitarra e voci. Di queste ultime ne
incidemmo parecchie finché il risultato finale non fu quello voluto.
In quei giorni lavoravamo su nastri a 24 tracce, per cui era
frequente andare oltre un numero così limitato di tracce. Per cui
dovevi procedere registrando una mezza dozzina di tracce per poi
combinarle successivamente assieme. Il che era un metodo di lavoro
simile a un terno al lotto perché era facile perdere dei suoni. Così
quando abbiamo registrato la leggendaria Bohemien Rhapsody, e lo è
davvero proprio per queste difficoltà , il nastro con le parti vocali
risultava deteriorato per via delle sovra-incisioni vocali. Mettendo
il nastro in controluce potevi guardarci attraverso, tanto era
consumato. Per cui procedemmo rapidamente a fare una copia di tutto
il lavoro. per cui quello di quel periodo era un modo di lavorare
molto diverso da quanto avviene oggi.
TG: Quante voci hai
registrato su Bohemien Rhapsody?
BM: Dovrei controllare,
ma comunque molte. Almeno qualche dozzina, perché a cantare eravamo
solo io, Freddie e Roger. E dovevamo cantare ogni singola parte
finché la linea vocale non risultasse con la giusta intonazione, la
giusta passione e la necessaria spontaneità . Dopodiché incidevamo
ancora e ancora le sovra-incisioni. Per cui alla fine avevamo tre
sovra-incisioni per una singola parte, fino anche a nove voci. Alla
fine in alcuni punti avremo avuto qualcosa come 80 voci diverse.
TG: Potresti spiegare
a cosa si riferiscono i personaggi di Galileo, Scaramouche e il
significato di Mama Mia?
BM: No, ovviamente non
posso. Non l’ho scritto io il pezzo e dovresti chiedere a Freddie,
cosa che io non ho mai fatto.
TG: Quindi non gli hai
mai chiesto cosa ti faceva cantare?
BM: E’ una cosa
divertente, ma noi non gli abbiamo mai chiesto il significato del
testo. In canzoni così personali c’è una sorta di sotto-testo
oltre le parole e io credo che chi le scrive, se non vuole dirti a
cosa si riferiscono, non ha senso chiedere. Negli anni questo
approccio è mutato. In The Show Must Go On, ad esempio, Freddie si
sedeva accanto a me e io gli dicevo: “Guarda, voglio che ci
lavoriamo assieme. Voglio che la facciamo insieme questa cosa.” In
tal caso discutevamo di ogni singola parola del testo, del loro
significato e di cosa volevamo dire. Ma ai primi tempi questo non
accadeva mai. Ci limitavamo a sapere che l’autore della canzone ne
conoscesse anche il significato.
Parte Quarta: i Queen
e l’America.
TG: Bohemian Rhapsody
venne anche cantata nel famoso film Wayne’s World…
BM: Ho sempre pensato che
Mike Mayers (famoso attore americano, divenuto celebre con la serie
Austin Power, n.d.t.) con quella sua interpretazione ci abbia
introdotto alle nuove generazioni.
TG: In che modo?
BM: Oh, traducendoci
completamente in favore delle nuove generazioni. All’epoca Freddie
non stava già bene, mentre io ebbi dei contatti telefonici con
Mayers che mi chiamò per chiedermi: “Puoi assicurarmi che Freddie
la senta?” Così feci da intermediario e feci ascoltare a Freddie
la versione di Bohemian Rhapsody di Mike e a Freddie piacque. Ricordo
che rise dopo averla ascoltata, mentre il suo commento non credo sia
riferibile, ma se vuoi puoi metterci un bip! Freddie disse che noi
avevamo uno strano rapporto con l’America, che ci considerava un
gruppo solo quando eravamo in tour. Agli inizi eravamo in tour almeno
nove mesi all’anno e spesso andavamo a suonare proprio negli
States. Poi avvenne qualcosa che cambiò tutto: per tutto il mondo
eravamo la band più grande, tranne che per gli States. Non saprei
dirti i motivi, non ho mai avuto bisogno di capirne le ragioni.
Semplicemente la cosa non funzionava più. Ma resta comunque il fatto
che nella storia dei Queen c’è una specie di vuoto se guardi agli
Stati Uniti e di questo Freddie era molto consapevole. Ma non siamo
mai tornati a fare tour da quelle parti. Abbiamo suonato negli stadi
di tutto il mondo ma in America non è successo. Così quando Freddie
ascoltò questa cosa di Mike Mayers disse: “Questo potrebbe fare
per noi ciò che niente altro ha mai fatto”. In altre parole
Waynes’ World è riuscito a fare quella differenza per noi in
America che nemmeno Freddie riuscì a fare. Tanto che lo stesso
Freddie mi disse: “Penso che sarò fottutamente morto prima di
poter tornare di nuovo grandi in America”. Il che è una cosa
strana ma fu anche un modo di dire la pura verità . Ma Wayne’s
World fu il mezzo attraverso il quale i giovani americani scoprirono
i Queen, il che fu una grande cosa per noi.
TG: Sullo stesso solco
dell’interpretazione di Mike Mayer oggi c’è la versione di
Bohemian Rhapsody realizzata dai Muppets….
BM: Si è divertente. Ci
siamo anche noi sul pezzo, perché loro non sapevano suonarla e ci
hanno chiesto la possibilità di usare la nostra base originale.
Generalmente non diamo a nessuno questa opportunità . Ma in questo
caso, trattandosi dei Muppets….abbiamo anche prodotto il singolo.
Parte Quinta: la
sessualità di Freddie.
TG: Brian, vorrei
chiederti qualcosa a proposito dell’origine del nome Queen.
BM: Oh mio dio, mi fai
fare un bel salto indietro nel tempo…
TG: Allora fammi fare
questa domanda. Freddie Mercury era gay o bisessuale. Non sono sicura
di come lui definisse se stesso, ma non credo ne abbia mai parlato
apertamente da quanto ho capito.
BM: Una volta a questa
domanda risposte così: “Io sono gay come una giunchiglia!”
TG: Cosa intendeva
dire con questo?
BM: Esattamente ciò che
ha detto.
TG: Ma lui disse
questa cosa in pubblico?
BM: Si, in pubblico.
Freddie non era uno che usava mezzi termini.
TG: Negli anni 70 e 80
molti fans dell’hard rock erano omofobici. Questa cosa come era
vissuta?
BM: Come si comportavano
rispetto a Freddie? Beh è una cosa strana. Per molto tempo è stato
un argomento di cui non si è mai discusso. La verità sulla
questione è che nessuno dovrebbe interessarsene. Perché qualcuno
dovrebbe preoccuparsi di quali sono le preferenze sessuali delle
persone? Freddie non ha mai nascosto di passare dalle donne agli
uomini. Ma non è sempre stato così, soprattutto agli inizi della
nostra carriera. Io e Freddie condividevamo le stanze in cui
pernottavamo e chi dormiva con lui non erano certamente uomini.
Suppongo che poi vi sia stato un graduale cambiamento, ma non so dire
come la cosa abbia funzionato. Ma noi non ne abbiamo mai parlato
perché non era una cosa importante dal nostro punto di vista. Come
doveva esserlo dopotutto? Noi facevamo musica assieme! Come la cosa
sia stata vissuta dai fans non saprei dirlo, non ne abbiamo mai
parlato. Ma ricordo un tour promozionale che facemmo per presentare I
Want To Break Free. Per questo brano realizzammo anche un video, che
era una sorta di presa in giro di Coronation Street (soap opera molto
in voga a metà degli anni ’80 in Inghilterra), per il quale ci
vestimmo tutti da donne per impersonare le protagoniste dello show.
Quindi ci vestimmo da donne, da ragazze e la cosa era davvero
divertente. Fu una cosa ironica. E tutti coloro che lo videro nel
mondo risero e capirono lo scherzo messo in scena. Poi ricordo che
partimmo per un tour in centro america e lì ci dicevamo che non
potevano suonare la canzone, che era omosessuale! E la cosa ci causo
letteralmente dei problemi sia con le radio che con parte del
pubblico. E penso che in parte questa fu una delle ragioni che
generarono quella sorta di buco tra i Queen e gli States, il che fu
una vera tragedia perché un sacco di nostri successi non poterono
circolare in quei paesi e diventare parte della vita delle persone,
una condizione che di fatto è durata fino all’uscita di The Show
Must Go On e These Are The Days Of Our Lives.
Parte Sesta: Brian lo
scienziato.
TG: Lasciami
affrontare un altro argomento riguardante i recenti sviluppi della
tua vita extra Queen. Recentemente hai conseguito un Phd in
astrofisica, una materia che studiavi già prima della nascita della
band. E su questo argomenti hai anche scritto un libro. Per me è
interessante pensare che dopo essere diventato una star hai deciso di
tornare indietro e laurearti. Certo non deve essere stato come
entrare in una classe di studenti e sederti al banco….
BM: Beh, in pratica è
così. Certo non ho fatto molte lezioni, ma fondamentalmente
abbandoni il tuo status e torni ad essere uno studente. È stato
duro.
TG: Davvero, è stato
difficile?
BM: Si, perché devi
tornare ad essere sottomesso rispetto al sistema. E questa è una
cosa che dimentichi quanto sia difficile finché non torni a fare lo
studente e sai che sarai giudicato. Ti metti a fare qualcosa che ti
inorgoglisce ma ci sarà sempre gente che ti domanda perché sei
tornato indietro a fare questa cosa, e questo è frustrante. Ma non
mi sono sentito trattato diversamente dagli altri studenti. Volevo
che questo PhD fosse qualcosa di vero. E così è stato. Nessuno mi
ha reso le cose facili e io non volevo che ciò accadesse. Quindi è
stata dura, ho passato un anno della mia vita a studiare ma ne è
valsa la pena. E oggi sono felice di aver conseguito il mio PhD.
TG: Puoi spiegare il
significato della tua tesi?
BM. E’ uno studio sulla
polvere che si trova nel sistema solare. Attualmente ne siamo
circondati. La Terra è costantemente immersa in questa nube, parte
della quale precipita anche nella nostra atmosfera. E l’esperimento
che ho condotto aveva lo scopo di tentare di individuare il movimento
di questa polvere cosmica, la sua origine, la sua destinazione e il
suo significato rispetto all’origine dell’universo. Devo
ammettere che per molte persone il nostro piccolo sistema solare per
molto tempo non ha rappresentato un grande argomento di interesse.
Per mia fortuna però, in concomitanza col mio ritorno agli studi,
sono stati scoperti molti pianeti extra solari, così l’argomento
sulla polvere interstellare è tornata in auge perché ci permette di
capire anche i sistemi diversi dal nostro. Quindi l’argomento della
mia tesi è tornato di attualità .
TG: L’implicazione
più importante di questo tuo studio?
BM: Questa è una buona
domanda. L’implicazione più importante è capire da dove viene la
polvere, se si tratta di qualcosa che ha avuto origine con il cosmo o
se è stata creata adesso. La polvere nell’universo viene creata
continuamente nell’ambito di numerosi fenomeni, come l’esplosione
delle super nova ad esempio (le super nova rappresentano una delle
fasi di vita delle stelle, in particolare quella che precede la loro
morte, n.d.t.). E tutto ciò che ci circonda, comprese le persone e
gli animali sono composti da queste particelle. Per cui quando Joni
Mitchell (famosa cantante americana, n.d.t.) canta “Siamo polvere
di stelle, siamo fatti d’oro”, dice una cosa giusta. Noi siamo
letteralmente polvere di stelle. E trovo questa cosa assolutamente
incredibile. La materia di cui sono fatti i nostri corpi proviene
dalle stelle.
@Last_Horizon