Intervista a Brian May per Fresh Air Radio del 7 Agosto 2010


Introduzione.

Terry Gross, presentatrice della trasmissione radiofonica Fresh Air, la web radio del magazine WHYY, ha realizzato nell'Agosto del 2010 questa intervista a Brian May, al quale a rivolto alcune domande inerenti i numerosi interessi del musicista. La conduttrice ha presentato ai suoi ascoltatori Brian, definendolo un moderno uomo del rinascimento, un appellativo che ormai da alcuni anni rappresenta una sorta di biglietto da visita del chitarrista. Con i Queen ha raggiunto i vertici di tutte le classifiche, vendendo nel mondo 300 milioni di copie. Ha suonato il famoso assolo di chitarra di We Are The Champions e ha cantato le parti vocali basse nel singolo Bohemien Rhapsody, senza dimenticare che è anche l’autore di We Will Rock You e, secondo la rivista Rolling Stone, è tra i primi 100 chitarristi di sempre. Ma gli interessi di May non sono limitati al solo mondo della musica. Prima che i Queen diventassero grandi, Brian studiava astrofisica all’Imperial College di Londra.
Costretto ad accantonare gli studi per poter suonare in giro per il mondo con i Queen, le sue conoscenze scientifiche si sono comunque rivelate utili anche per la band quando si è trattato di sperimentare nuove soluzione per incidere dei brani in studio. In We Will Rock You, ad esempio, May realizzò il suono del famoso “mani-mani-piedi” che caratterizza il pezzo in modo tale da dare l’impressione che i battiti fossero fatti da centinaia di persone (ricordiamo che all’epoca, siamo nel 1977, non esistevano computer in grado di realizzare simili effetti, n.d.t.), sfruttando le sue conoscenze sulla propagazione dei suoni.


Parte Prima: il musicista, lo scienziato, lo scrittore.

(Lo show radiofonico si apre con uno scorcio sugli anni 80 con Another One Bites The Dust, che offre alla conduttrice Terry Gross lo spunto per presentare il suo ospite.)
TG: Questa è la band chiamata Queen. Il mio ospite, Brian May, è uno dei fondatori e chitarrista del gruppo. In tempi recenti si è occupato di vari tipi di “polveri” (dust in inglese, n.d.t.). Esattamente tre anni fa ha conseguito il suo PhD in astrofisica con una tesi dedicata alle polveri interstellari. Oggi è il Dr. May, nonché cancelliere della John Moore University di Liverpool. Ma questo non è l’unico aspetto capace di sorprendere i fans dei Queen. Brian May è anche il co-autore del libro “A Village Lost and Found”, che raccoglie foto stereo risalenti al 1850. Le immagini furono realizzate dal primo fotografo specializzato in foto stereoscopiche (l’antesignano del moderno 3D per intenderci, n.d.t.) T.R. Williams, che ritrasse il villaggio dove era solito trascorrere l’estate. Per poter vedere l’effetto 3D è necessario indossare un paio di occhiali speciali, realizzati dallo stesso Brian May e venduti assieme al volume. Nella vita di May come membro dei Queen è famoso per i suoi assoli di chitarra e per aver scritto la celeberrima We Will Rock You. Il cantante del gruppo, Freddie Mercury, è morto invece nel 1991. Prima di parlare di musica, vorrei ascoltare il Dr. May sul suo nuovo libro.

TG: Brian, è un piacere averti qui con noi. Negli ultimi 25 anni hai lavorato a questo tuo progetto sulle foto stereoscopiche. Puoi raccontarci come è nata questa idea?
BM: E’ la magia dello stereo, penso, diventata conosciuta come il 3D del 1850, anche se è ancora più risalente nel tempo, in un’epoca di fatto molto vicina alla nascita della fotografia stessa. È straordinario assistere a cosa accade a due immagini speculari una volta che le puoi guardare assieme con il visore. Improvvisamente puoi vedere una sorta di finestra virtuale, attraverso la quale puoi osservare il mondo. Oggi tutti possono capire di cosa parlo grazie alla visione del film Avatar. Ma quando noi abbiamo iniziato a lavorare al libro, ho dovuto spiegare alle persone cosa fosse il 3D, in cosa consiste. Oggi invece viviamo in un’epoca fortunata in cui c’è il boom della stereoscopia e del 3D. Per cui per noi è bello poter mettere un po’ d’ordine nella questione e mostrare alla gente cosa si faceva già nel 1850.

TG: Possiamo dire che questo è un progetto a cui lavori davvero da molto tempo, giusto?
BM: Assolutamente. Credo sia qualcosa a cui pensavo già prima dei Queen. Ero interessato a questo argomento già a nove anni. Per cui posso dire che ha attraversato la mia vita e mi sento fortunato ad aver avuto la possibilità di coltivare questa passione e altre, tanto da aver oggi chiuso dei cerchi aperti anni fa, come l’astronomia ad esempio.

TG: E’ qui la cosa straordinaria secondo me. Hai coltivato delle passioni completamente diverse da ciò che facevi con i Queen, cose che richiedevano quiete e solitudine.
BM: Si. E’ sempre stata una bella cosa avere l’opportunità di cambiare scenario. Nei giorni trascorsi con i Queen, quando eravamo in tour, mi svegliavo la mattina e pensavo: “Sono a Philadelphia per l’ennesima volta nella mia vita. Cosa posso fare?”. Molte volte mi sono alzato e sono andato in giro per la città a scattare fotografie, che è sempre stata una mia passione, e ho trovato gente proveniente da ogni parte del mondo. Persone provenienti dal Giappone, Sudamerica, Nord America, da ogni angolo d’Europa che erano interessate alla fotografia stereo, alla stessa identica cosa che appassiona anche me. Così per un po’ di tempo ho ricercato il materiale di T. R. Williams, ovvero dell’uomo che ha fotografato il villaggio dove era solito passare l’estate e sul quale ha scritto anche delle poesie, che rappresentato una parte davvero importante del suo lavoro.

Parte Seconda: come nasce un inno.

TG: Per prepararmi per questa intervista ho ascoltato molto del vecchio materiale dei Queen e ho trovato cose molto divertenti e altre più drammatiche, un mix tra teatralità, rock e opera. Per cui se sei d’accordo vorrei chiederti alcune cose sul tuo lavoro con i Queen. E vorrei partire con il parlare di una canzone in particolare, We Will Rock You. Da cosa ti è stata ispirata questa canzone? Penso che negli anni sia stata suonata una moltitudine di volte negli stadi sportivi. A cosa pensavi quando l’hai scritta? La consideravi già un inno sportivo?
BM: No, no davvero. La consideravo più di un inno rock, suppongo, qualcosa che creasse una connessione con il pubblico, perché mi piaceva il fatto che la gente ne restasse coinvolta. È meraviglioso per me vedere cosa è stata capace di fare We Will Rock You. Questo brano assieme a We Are The Champions hanno qualcosa di trascendentale che travalica i normali standard di una canzone, sono diventati parte integrante della vita del pubblico, il che è meraviglioso. Per me è fantastico andare allo stadio a vedere una partita di calcio, basket o qualsiasi altro sport e sentire che questi due brani ci sono. E ogni volta penso: “Mio Dio, molta gente non sa che questo pezzo l’ho scritto io! Per molti non si tratta di canzoni scritte da qualcuno. Sono diventati brani che per la gente ci sono sempre stati e questo, in un certo senso, è il più grande complimento che puoi ricevere per una canzone.

TG: Penso che questo possa dipendere dal fatto che il suo tipico incedere è utilizzato in tanti ambiti, compreso quello delle cheerleader scolastiche….
BM: La famosa base di We Will Rock You non era nemmeno prevista nella versione originale del brano. Fu un’idea che sviluppammo dopo un concerto particolarmente movimentato che abbiamo tenuto vicino Birmingham, alla Bingley Hall. Il responso del pubblico mentre suonavamo fu enorme, cantavano praticamente tutto ciò che facemmo. Ricordo che dopo lo show ne parlai con Freddie Mercury e lui mi disse ‘Ovviamente non possiamo combatterli a lungo. Ormai è qualcosa che che fa parte dei nostri spettacoli e dobbiamo trovare il modo di renderlo parte integrante, perché la gente vuole essere partecipe’. Così io e Freddie ci guardammo e gli disse che era una cosa interessante. Dopo il ragionamento fatto con Freddie andai a casa a dormire e il mattino dopo avevo in testa il ritmo con il battito di mani e piedi. Pensavo: “Cosa puoi dare alla gente che possa fare quando viene ai nostri concerti?” La risposta era logica: potevano battere le mani e i piedi e potevano cantare qualcosa. Dal mio punto di vista queste tre cose dovevano fondersi in un unico elemento. Era un espressione di potenza. Ho pensato a questo brano come a qualcosa che fosse di più di un inno, il mio obbiettivo era soprattutto quello di creare unità con il pubblico… mi piaceva il fatto che la gente fosse un tutt’uno. Non ho realizzato subito che potesse anche diventare un inno sportivo. Questa è una cosa magnifica e per me è meraviglioso vedere cosa ha fatto We Will Rock You.

TG: E del protagonista della canzone, di questo ragazzo raccontato nel pezzo, cosa puoi dirci?
BM: Si, il testo di We Will Rock You descrive lo sviluppo di un ragazzo che diventa un uomo, racconta i suoi sogni, di come vede se stesso e dei modi attraverso i quali può mettere a frutto le proprie potenzialità nel mondo. È una sorta di canzone contemplativa, che affronta il tema dell’equilibrio tra potenzialità da mettere a frutto con l’accettazione dei propri limiti.

TG: Spiegaci come sei arrivato all’idea definitiva della canzone.
BM: Avevo questa idea in mente, che se avessimo avuto tempo a sufficienza avremmo potuto creare un suono che poteva funzionare anche senza l’uso del riverbero o altri effetti. In questo senso siamo stati fortunati perché abbiamo potuto lavorare in una vecchia chiesa in disuso nel nord di Londra che aveva davvero il suono giusto. All’interno c’erano solo alcuni vecchi banchi che si rivelarono perfetti per batterci su con i piedi. Così li mettemmo tutti assieme e iniziammo a batterci su e il suono che venne fuori era davvero grande. Ma io ragionavo con la mente del fisico, così mi domandai: “Cosa accadrebbe se a fare questo suono fossero mille persone?” La risposta che trovai fu questa: se volevo sentire mille persone che replicavano ciò che facevamo noi in quattro, il suono andava replicato, non con un effetto di eco ma registrando il tutto da varie distante. Oggi la gente può fare una cosa del genere affidandosi alle macchine, ma all’epoca questo fu il metodo che noi usammo per raggiungere lo scopo. Quando registrammo le varie parti, mettemmo tutto insieme inserendo un ritardo tra un’incisione e l’altra. E nessuno dei ritardi (delay in gergo tecnico, n.d.t.) erano armonicamente connessi tra loro. In questo modo evitammo l’effetto eco, tranne per il suono delle mani che battono, che si dilata attorno dando la sensazione per l’ascoltatore di trovarsi al centro di una grande sala circondato da mille persone che battono tutte assieme.

TG: Ecco, secondo me c’è anche un altro aspetto interessante su We Will Rock You. È la canzone più famosa che hai scritto. Ed è prevalentemente una canzone a cappella (cioè quasi interamente cantata senza l’apporto di strumenti, n.d.t.). Il tuo assolo di chitarra arriva praticamente solo alla fine della canzone. E in questo senso penso sia incredibile che un chitarrista come te abbia scritto un pezzo in cui di fatto non fai quasi nulla.
BM: Beh, il battito di mani e piedi è mio. E canto anche

TG: E in questo sei davvero bravo!
BM: Ah grazie! Noi abbiamo fatto tutto in quel pezzo. Si, la canzone non riguarda la chitarra, è più indirizzata alla voce, al cantato. Sai, penso si possano fare grandi cose con la produzione e io adoro produrre. La produzione ha riguardato gran parte della mia vita. Ma ho sempre temuto che senza un cantante adatto, non fai altro che sprecare il tuo tempo. Per cui, secondo me, una canzone è una canzone, non è nient’altro che questo. Ciò che occorre è la giusta canzone e il giusto cantante, nonché la necessaria passione in quello che fai. A proposito delle chitarre, si, noi non volevamo essere ripetitivi. Non volevo che We Will Rock You fosse la canzone in cui c’è l’assolo di chitarra e poi il cantato. Volevo qualcosa di completamente diverso dal solito. Per cui, la presenza della chitarra solo alla fine del pezzo è qualcosa di assolutamente voluto, perché doveva rappresentare un momento diverso all’interno della canzone stessa, in modo da conferirle una direzione diversa. Non è una canzone pop standard.


TG: Adesso suoniamo proprio la parte finale di We Will Rock You, così puoi offrirci qualche altro commento. (Viene fatta ascoltare l’ultima parte della canzone e Brian dice la sua, n.d.t.).
BM: Interessante che tu abbia suonato il finale della canzone. Si può sentire come la chitarra resti sospesa nell’aria. Quindi la chitarra c’è, è presente, ma non al centro del palco, ma subentra attraverso l’ultimo coro e all’improvviso esplode. E puoi anche sentire in sottofondo Freddie che dice “All right”, che è un modo per dire che la chitarra ora prende il sopravvento e si entra in una dimensione del pezzo totalmente differente, e l’intenzione in effetti era proprio questa. È una cosa davvero informale. Non c’è il grande finale, si interrompe all’improvviso e ti porta a dire: “Hey, cos’è successo?”

Parte Terza: la nascita di Bohemien Rhapsody.

TG: La musica dei Queen è sempre stata un mix di hard rock, musica teatrale e operistica. E quando consideri la media dei fans dell’hard rock degli anni 70 e 80, si può dire che la maggior parte di loro non si interessava né di teatro né di opera. E questa è una cosa incredibile, perché siete riusciti a creare un mix di tutti questi generi che ha conquistato persone che erano principalmente amanti dell’hard rock. Sei d’accordo con me quando dico che questo è stato un mix insolito?
BM: Si ma ribadisco che non è stata una cosa deliberata. Non è stato pianificato. Abbiamo solo tirato fuori tutto quanto ci piaceva. Penso che come ragazzi fossimo esposti ad ogni tipo di materiale. I miei genitori erano appassionati di musica classica e io ne ho ascoltata parecchia proprio per questo mentre crescevo. Inoltre quando eravamo ragazzi la radio era davvero diversa da quella di oggi. All’epoca il nostro programma preferito era “Uncle Mac’s Children’s Favorite”, nel quale potevi scrivere per richiedere la tua musica preferita, ma non c’era il rock e nemmeno il pop che all’epoca nemmeno esisteva. C’era gente che scriveva per richiedere cose come “The Thunder and the Lighting Polka” o “The Laughting Policeman”! o magari qualcosa delle band di jazz della scena di New Orleans. Quindi ognuna di queste cose si è mescolata per noi ragazzi fino ad influenzarci. Sicuramente non conosci un artista chiamato Mantovani, che suonava vari strumenti a corde come violini, viole e cembali. E lui è un artista che ci ha influenzati, tanto da essere presente nella nostra musica. E poi c’erano Buddy Holly, che dio la benedica. E i Crickets.

TG: Quando avete conosciuto Freddie Mercury, vi ha mai spinto verso una certa direzione cui non avevate mai pensato prima, ad esempio in fatto di costumi o teatralità?
BM: Sicuramente per quel che riguarda i costumi si. Ricordo quando Freddie non faceva ancora parte della nostra band e venne ad assistere ad un nostro concerto. Ci chiamavamo Smile all’epoca e lui ci disse: “Grandi, meraviglioso, incredibile. La vostra musica è grandiosa. Ma sapete, non siete vestiti nel modo giusto, non avete le luci giuste e non siete drammatici. Dovreste essere uno spettacolo.“ Per cui Freddie ci ha influenzati molto per quanto riguarda i movimenti sul palco, al fine di renderli più teatrali, più connessi con il pubblico. E questa fu una grande cosa. Si, Freddie fece parecchie cose per noi che, ne sono sicuro, non avremmo mai pensato da soli.

TG: Uno dei brani più anticonvenzionali e teatrali che Freddie Mercury abbia mai scritto è Bohemain Rhapsody. Come vi presentò il primo demo di questo pezzo?
BM: Si sedette al pianoforte e iniziò a cantare “do-do-do, da-da-da”; poi ci disse: “A questo punto inizia la parte a cappella e poi noi torniamo a suonare subito dopo”. Aveva tutto già pianificato e sapeva come avremmo fatto. La base venne realizzata solo con pianoforte, basso e batteria. Dopodiché iniziammo le sovrai-incisioni di pianoforte, chitarra e voci. Di queste ultime ne incidemmo parecchie finché il risultato finale non fu quello voluto. In quei giorni lavoravamo su nastri a 24 tracce, per cui era frequente andare oltre un numero così limitato di tracce. Per cui dovevi procedere registrando una mezza dozzina di tracce per poi combinarle successivamente assieme. Il che era un metodo di lavoro simile a un terno al lotto perché era facile perdere dei suoni. Così quando abbiamo registrato la leggendaria Bohemien Rhapsody, e lo è davvero proprio per queste difficoltà, il nastro con le parti vocali risultava deteriorato per via delle sovra-incisioni vocali. Mettendo il nastro in controluce potevi guardarci attraverso, tanto era consumato. Per cui procedemmo rapidamente a fare una copia di tutto il lavoro. per cui quello di quel periodo era un modo di lavorare molto diverso da quanto avviene oggi.

TG: Quante voci hai registrato su Bohemien Rhapsody?
BM: Dovrei controllare, ma comunque molte. Almeno qualche dozzina, perché a cantare eravamo solo io, Freddie e Roger. E dovevamo cantare ogni singola parte finché la linea vocale non risultasse con la giusta intonazione, la giusta passione e la necessaria spontaneità. Dopodiché incidevamo ancora e ancora le sovra-incisioni. Per cui alla fine avevamo tre sovra-incisioni per una singola parte, fino anche a nove voci. Alla fine in alcuni punti avremo avuto qualcosa come 80 voci diverse.

TG: Potresti spiegare a cosa si riferiscono i personaggi di Galileo, Scaramouche e il significato di Mama Mia?
BM: No, ovviamente non posso. Non l’ho scritto io il pezzo e dovresti chiedere a Freddie, cosa che io non ho mai fatto.

TG: Quindi non gli hai mai chiesto cosa ti faceva cantare?
BM: E’ una cosa divertente, ma noi non gli abbiamo mai chiesto il significato del testo. In canzoni così personali c’è una sorta di sotto-testo oltre le parole e io credo che chi le scrive, se non vuole dirti a cosa si riferiscono, non ha senso chiedere. Negli anni questo approccio è mutato. In The Show Must Go On, ad esempio, Freddie si sedeva accanto a me e io gli dicevo: “Guarda, voglio che ci lavoriamo assieme. Voglio che la facciamo insieme questa cosa.” In tal caso discutevamo di ogni singola parola del testo, del loro significato e di cosa volevamo dire. Ma ai primi tempi questo non accadeva mai. Ci limitavamo a sapere che l’autore della canzone ne conoscesse anche il significato.

Parte Quarta: i Queen e l’America.

TG: Bohemian Rhapsody venne anche cantata nel famoso film Wayne’s World…
BM: Ho sempre pensato che Mike Mayers (famoso attore americano, divenuto celebre con la serie Austin Power, n.d.t.) con quella sua interpretazione ci abbia introdotto alle nuove generazioni.

TG: In che modo?
BM: Oh, traducendoci completamente in favore delle nuove generazioni. All’epoca Freddie non stava già bene, mentre io ebbi dei contatti telefonici con Mayers che mi chiamò per chiedermi: “Puoi assicurarmi che Freddie la senta?” Così feci da intermediario e feci ascoltare a Freddie la versione di Bohemian Rhapsody di Mike e a Freddie piacque. Ricordo che rise dopo averla ascoltata, mentre il suo commento non credo sia riferibile, ma se vuoi puoi metterci un bip! Freddie disse che noi avevamo uno strano rapporto con l’America, che ci considerava un gruppo solo quando eravamo in tour. Agli inizi eravamo in tour almeno nove mesi all’anno e spesso andavamo a suonare proprio negli States. Poi avvenne qualcosa che cambiò tutto: per tutto il mondo eravamo la band più grande, tranne che per gli States. Non saprei dirti i motivi, non ho mai avuto bisogno di capirne le ragioni. Semplicemente la cosa non funzionava più. Ma resta comunque il fatto che nella storia dei Queen c’è una specie di vuoto se guardi agli Stati Uniti e di questo Freddie era molto consapevole. Ma non siamo mai tornati a fare tour da quelle parti. Abbiamo suonato negli stadi di tutto il mondo ma in America non è successo. Così quando Freddie ascoltò questa cosa di Mike Mayers disse: “Questo potrebbe fare per noi ciò che niente altro ha mai fatto”. In altre parole Waynes’ World è riuscito a fare quella differenza per noi in America che nemmeno Freddie riuscì a fare. Tanto che lo stesso Freddie mi disse: “Penso che sarò fottutamente morto prima di poter tornare di nuovo grandi in America”. Il che è una cosa strana ma fu anche un modo di dire la pura verità. Ma Wayne’s World fu il mezzo attraverso il quale i giovani americani scoprirono i Queen, il che fu una grande cosa per noi.

TG: Sullo stesso solco dell’interpretazione di Mike Mayer oggi c’è la versione di Bohemian Rhapsody realizzata dai Muppets….
BM: Si è divertente. Ci siamo anche noi sul pezzo, perché loro non sapevano suonarla e ci hanno chiesto la possibilità di usare la nostra base originale. Generalmente non diamo a nessuno questa opportunità. Ma in questo caso, trattandosi dei Muppets….abbiamo anche prodotto il singolo.

Parte Quinta: la sessualità di Freddie.

TG: Brian, vorrei chiederti qualcosa a proposito dell’origine del nome Queen.
BM: Oh mio dio, mi fai fare un bel salto indietro nel tempo…

TG: Allora fammi fare questa domanda. Freddie Mercury era gay o bisessuale. Non sono sicura di come lui definisse se stesso, ma non credo ne abbia mai parlato apertamente da quanto ho capito.
BM: Una volta a questa domanda risposte così: “Io sono gay come una giunchiglia!”

TG: Cosa intendeva dire con questo?
BM: Esattamente ciò che ha detto.

TG: Ma lui disse questa cosa in pubblico?
BM: Si, in pubblico. Freddie non era uno che usava mezzi termini.

TG: Negli anni 70 e 80 molti fans dell’hard rock erano omofobici. Questa cosa come era vissuta?
BM: Come si comportavano rispetto a Freddie? Beh è una cosa strana. Per molto tempo è stato un argomento di cui non si è mai discusso. La verità sulla questione è che nessuno dovrebbe interessarsene. Perché qualcuno dovrebbe preoccuparsi di quali sono le preferenze sessuali delle persone? Freddie non ha mai nascosto di passare dalle donne agli uomini. Ma non è sempre stato così, soprattutto agli inizi della nostra carriera. Io e Freddie condividevamo le stanze in cui pernottavamo e chi dormiva con lui non erano certamente uomini. Suppongo che poi vi sia stato un graduale cambiamento, ma non so dire come la cosa abbia funzionato. Ma noi non ne abbiamo mai parlato perché non era una cosa importante dal nostro punto di vista. Come doveva esserlo dopotutto? Noi facevamo musica assieme! Come la cosa sia stata vissuta dai fans non saprei dirlo, non ne abbiamo mai parlato. Ma ricordo un tour promozionale che facemmo per presentare I Want To Break Free. Per questo brano realizzammo anche un video, che era una sorta di presa in giro di Coronation Street (soap opera molto in voga a metà degli anni ’80 in Inghilterra), per il quale ci vestimmo tutti da donne per impersonare le protagoniste dello show. Quindi ci vestimmo da donne, da ragazze e la cosa era davvero divertente. Fu una cosa ironica. E tutti coloro che lo videro nel mondo risero e capirono lo scherzo messo in scena. Poi ricordo che partimmo per un tour in centro america e lì ci dicevamo che non potevano suonare la canzone, che era omosessuale! E la cosa ci causo letteralmente dei problemi sia con le radio che con parte del pubblico. E penso che in parte questa fu una delle ragioni che generarono quella sorta di buco tra i Queen e gli States, il che fu una vera tragedia perché un sacco di nostri successi non poterono circolare in quei paesi e diventare parte della vita delle persone, una condizione che di fatto è durata fino all’uscita di The Show Must Go On e These Are The Days Of Our Lives.

Parte Sesta: Brian lo scienziato.

TG: Lasciami affrontare un altro argomento riguardante i recenti sviluppi della tua vita extra Queen. Recentemente hai conseguito un Phd in astrofisica, una materia che studiavi già prima della nascita della band. E su questo argomenti hai anche scritto un libro. Per me è interessante pensare che dopo essere diventato una star hai deciso di tornare indietro e laurearti. Certo non deve essere stato come entrare in una classe di studenti e sederti al banco….
BM: Beh, in pratica è così. Certo non ho fatto molte lezioni, ma fondamentalmente abbandoni il tuo status e torni ad essere uno studente. È stato duro.

TG: Davvero, è stato difficile?
BM: Si, perché devi tornare ad essere sottomesso rispetto al sistema. E questa è una cosa che dimentichi quanto sia difficile finché non torni a fare lo studente e sai che sarai giudicato. Ti metti a fare qualcosa che ti inorgoglisce ma ci sarà sempre gente che ti domanda perché sei tornato indietro a fare questa cosa, e questo è frustrante. Ma non mi sono sentito trattato diversamente dagli altri studenti. Volevo che questo PhD fosse qualcosa di vero. E così è stato. Nessuno mi ha reso le cose facili e io non volevo che ciò accadesse. Quindi è stata dura, ho passato un anno della mia vita a studiare ma ne è valsa la pena. E oggi sono felice di aver conseguito il mio PhD.

TG: Puoi spiegare il significato della tua tesi?
BM. E’ uno studio sulla polvere che si trova nel sistema solare. Attualmente ne siamo circondati. La Terra è costantemente immersa in questa nube, parte della quale precipita anche nella nostra atmosfera. E l’esperimento che ho condotto aveva lo scopo di tentare di individuare il movimento di questa polvere cosmica, la sua origine, la sua destinazione e il suo significato rispetto all’origine dell’universo. Devo ammettere che per molte persone il nostro piccolo sistema solare per molto tempo non ha rappresentato un grande argomento di interesse. Per mia fortuna però, in concomitanza col mio ritorno agli studi, sono stati scoperti molti pianeti extra solari, così l’argomento sulla polvere interstellare è tornata in auge perché ci permette di capire anche i sistemi diversi dal nostro. Quindi l’argomento della mia tesi è tornato di attualità.

TG: L’implicazione più importante di questo tuo studio?
BM: Questa è una buona domanda. L’implicazione più importante è capire da dove viene la polvere, se si tratta di qualcosa che ha avuto origine con il cosmo o se è stata creata adesso. La polvere nell’universo viene creata continuamente nell’ambito di numerosi fenomeni, come l’esplosione delle super nova ad esempio (le super nova rappresentano una delle fasi di vita delle stelle, in particolare quella che precede la loro morte, n.d.t.). E tutto ciò che ci circonda, comprese le persone e gli animali sono composti da queste particelle. Per cui quando Joni Mitchell (famosa cantante americana, n.d.t.) canta “Siamo polvere di stelle, siamo fatti d’oro”, dice una cosa giusta. Noi siamo letteralmente polvere di stelle. E trovo questa cosa assolutamente incredibile. La materia di cui sono fatti i nostri corpi proviene dalle stelle.

@Last_Horizon