Queen: la recensione di The Game



Per qualche ragione The Game è stato l'ultimo album della mia collezione, quello che mi ha permesso di avere finalmente una visione completa della discografia dei Queen che, al momento dell'acquisto, era ferma a Innuendo.


È strano quando si conclude un percorso come quello che ti porta alla scoperta di tutto ciò che ha fatto un artista. Lo paragono a una lunga strada che, nel caso dei Queen, è fatta di parecchie curve, strepitose discese, risalite vertiginose e sentieri inaspettati. Finché poi non arrivi a stare di fronte ad un bellissimo panorama da cui puoi finalmente ammirare tutte le strade e gli anfratti percorsi.
The Game è stato quindi il mio personale vertice, la meta che per fortuna non è rimasta solitaria a svettare su una storia musicale che dopo il 1991 ha avuto ancora qualcosa di importante da dire. E credo che per certi versi, quando il disco uscì nel 1980, anche per i fans dell'epoca abbia rappresentato un punto di arrivo, una svolta di fronte alla quale occorre scegliere se proseguire o accettare che il cambio di rotta era troppo netto e definitivo per andare oltre e affidarsi a quei quattro navigatori musicali.
In effetti, quando le prime note suonate al sintetizzatore introducono l'album e Play The Game, non puoi davvero fare a meno di pensare che appena cinque anni prima Freddie scriveva cose come Bohemian Rhapsody, mentre ancora più recenti erano pezzi come We Will Rock You o le sonorità aggressive e figlie degli anni '70 incise su Live Killers. Così il brano di apertura non diventa semplicemente l'introduzione, il primo passo verso la scoperta del disco, ma una vera e propria dichiarazione di intenti. O un avviso, se preferite: d'ora in poi cambiamo tutto quanto.
Quello scritto da Freddie e destinato inizialmente ad essere anche il titolo dell'album, è un invito esplicito a giocare con i Queen, nel senso più letterale del termine. Giocare con i suoni ovviamente, senza mai prendersi troppo sul serio o imporre a se stessi un certo stile. Lo hanno fatto altre band nate tra gli anni '60 e '70 e quasi tutte sono inesorabilmente tramontate o rimaste disperatamente aggrappate ad un sound polveroso e stanco. Ma ai Queen il cambiamento e la rivoluzione sono sempre piaciuti, e così eccoci alle prese con l'uso dei sintetizzatori, forse ancora un po' troppo dozzinali ma comunque utili a indicare la nuova direzione, il gioco a cui i fans sono chiamati a partecipare.
Le cose tuttavia si fanno ben più serie con Another One Bites The Dust. È strana la storia di questo brano, che ha rischiato di restare fuori dalla tracklist definitiva del disco, che ha suscitato parecchie perplessità da parte di Roger e che è stata addirittura accusata di plagio per via di quel giro di basso così simile a certe cose tipiche degli Chic di Nile Rodgers (che in effetti ha raccontato di aver avuto a che fare con John in studio).  Senza dimenticare ovviamente l'entusiasmo suscitato in Michael Jackson che convinse la band a pubblicarla.
Oggi a questa storia di cowboy su ritmi funky siamo parecchio abituati, ma nel 1980 deve essere stato un autentico shock trovarsi al cospetto di una creatura così diversa, ambigua, destinata per sua natura a far ballare. Lo stesso Freddie reinventa il suo modo di cantare per adattarlo al brano, dimostrando così di aver raggiunto una maturità vocale che gli consente di cantare qualsiasi cosa gli venga proposta. E forse l'aspetto più sorprendete di una canzone così radicata in quel dato periodo musicale è che funziona ancora benissimo ai giorni nostri, merito di una pulizia nell'incisione e di una linearità nell'esecuzione che riesce ad adattarsi benissimo tanto all'epoca del funky e della new wave, quanto alle stagioni dell'elettronica esasperata in cui saper cantare non è (purtroppo) così importante.
Oltre che con l'introduzione dei sintetizzatori, The Game rompe col passato anche con il numero di canzoni concesse a John Deacon e Roger Taylor, che passano da un solo brano a due. Molti non ci faranno un gran caso, eppure questa scelta è stata tra le più lungimiranti che i Queen potessero fare. Continuare ad affidarsi al duo May-Mercury come principali autori del gruppo poteva solo condurre verso insanabili rotture e approdi verso bassi fondali creativi. Introdurre nuove voci ha invece spinto la band ad esplorare strade nuove, magari non sempre giuste ma comunque in grado di mantenere vivo lo spirito creativo di tutti e quattro, senza che il tutto diventasse una forma di comodo manierismo auto-referenziale (ho espresso on termini complicati una cosa in realtà piuttosto semplice, ovvero il rischio di essere ripetitivi).
Il ritmo freddo e velatamente funky ritorna anche con Dragon Attack, solo che in questo caso l'autore è Brian May e quindi il risultato non può che essere orientato verso un rock teso e diretto. È uno dei brani che preferisco dell'intero album e che mi convince tantissimo anche nella versione live che i Queen hanno proposto per un po' di tempo legandolo all'assolo alla batteria di Roger e a Now I'm Here. L'aspetto più divertente del brano è che Brian, Roger John aggiungono la propria impronta, con brevi assoli che sembrano quasi voler mettere in mostra le rispettive capacità.
Subito dopo The Game ci propone il secondo pezzo firmato John Deacon, una Need Your Loving Tonight che credo possa rientrare nella categoria dei brani godibili ma non fondamentali. Però è una canzone pop-rock che non richiede un ascolto impegnativo e anche questo indica una direzione verso la quale i Queen si sentiranno in dovere di andare, quantomeno per conquistare il pubblico, specie quello americano, poco disponibile a digerire le complicanze nelle quali la band ha sempre amato sguazzare con i primi album.
Ovviamente il primo a imboccare la nuova via è Freddie con la sua Crazy Little Thing Called Love. La storia la conosciamo fin troppo bene, ma sebbene sia nata tra bolle di sapone e porcellane da bagno, Crazy non è affatto un brano poco rispettabile o da buttare via. E non è nemmeno un tentativo di Freddie di rendere omaggio al rock-a-billy di Elvis, nel senso che Freddie non ci prova. Ci riesce! Il pezzo infatti sarebbe potuto uscire tranquillamente a metà degli anni '50 e avrebbe conquistato tutte le radio e fatto ballare orde di studenti imbellettati durante il loro Incanto Sotto Il Mare (se non cogliete la citazione di Ritorno Al Futuro andate subito fuori di qui!). Crazy non è quindi un banale omaggio, ma uno straordinario viaggio nel tempo, credibile ed efficace in ogni sua nota. Come Freddie ci sia riuscito credo resterà uno di quegli splendidi misteri donati alla storia della musica e alle nostre orecchie rese felici dalla gioia contagiosa che si dipana dal pezzo fin dalle prime note.
La seconda parte del disco (accadeva così quando si aveva tra le mani un vinile) si apre con un altro intro che avrebbe potuto funzionare benissimo anche come traccia di apertura dell'album, cosa che in effetti venne fatta per un paio di live di quel periodo. Ovviamente stiamo parlando di Rock-It, secondo tentativo (dopo Fun It) di mettere assieme la voce di Roger e quella di Freddie nella veste di doppio cantante. Sebbene il brano patisca un po' troppo l'uso massiccio di sintetizzatori, credo sia un esperimento riuscito, che svela quelle qualità autoriali che il nostro batterista affinerà sempre di più fino a diventare un elemento fondamentale per i successi anni '80 dei Queen.
Con Don't Try Suicide entriamo nel campo delle sperimentazioni. Freddie attinge direttamente dalle atmosfere sonore che negli anni '80 renderanno famosi tre giovani musicisti chiamati Police. Se non ci credete, ascoltate con attenzione la chitarra suonata da Brian nel brano e vi sembrerà di essere finiti con la puntina del giradischi dalle parti di Walking On The Moon. Il che non è necessariamente un male, perché a Freddie e ai Queen è sempre riuscita bene l'arte del “saccheggio” da altri. Lo fanno tutti gli artisti e finché non si sfora nel campo dell'imitazione, il risultato è quasi sempre gradevole e sorprendente. Ma se mi chiedete quante volte ho ascoltato questa canzone, allora temo di potervi rispondere con un numero piuttosto preciso. E questa non è decisamente una buona cosa.
Tutt'altra faccenda per Sail Away Sweet Sister. Il brano, scritto da Brian May, è il classico esempio di canzone che avrebbe meritato sorti migliori in termini di promozione e di successo. I fans di lungo corso magari l'ameranno quanto me, ma sono sicuro che il grande pubblico ne ignori addirittura l'esistenza. Eppure è una delle composizioni più belle di Brian, capace di mettere assieme dolcezza, profondità e quella tendenza a fare di ogni canzone una sorta di inno, un po' come già accaduto per brani come Teo Torriatte. Il pezzo piace parecchio anche ad Axl Rose, che si è divertito ad intonarla in un paio di occasioni assieme ai suoi Guns e sull'edizione deluxe del 2011 di The Game ne trovate una versione demo che, per quanto incompleta, risulta ancora più bella dell'originale.
La seconda fatica di Roger per l'album è Coming Soon, altro deep cut ignorato dalle masse e forse anche da buona parte dei fans più irriducibili. È il classico pezzo “alla Roger”, schematico e ripetitivo che, tuttavia, essendo stato affidato alla voce di Freddie, si fa comunque ascoltare. Anche in questo temo di non essere al cospetto di qualcosa di cui non sono più in grado di ricordare il numero di ascolti. Perciò è tempo di confermare un sospetto che leggendo queste parole potrebbe essersi fatto largo tra le vostre riflessioni: The Game non è il mio album preferito dei Queen.
Il disco si conclude comunque degnamente con Save Me, una malinconica ballata scritta da Brian May e interpretata da Freddie in un modo semplicemente sublime, soprattutto dal vivo. Eppure, forse l’eccessiva tristezza che aleggia sul pezzo mi ha sempre impedito di amarla fino in fondo. Intendiamoci, considero Save Me un vero capolavoro, ma me ne tengo a rispettosa distanza per usufruirne in quei momenti in cui si ha bisogno di avvolgersi in una coperta di nostalgiche riflessioni.
Quindi si, posso dire che The Game non rientra tra i miei album preferiti. Credo sia affetto da una serie di limiti che, precisiamolo, appartengono tutti a me, al mio modo di intendere le cose. C’è la copertina ad esempio, che ritrae i Queen in un modo poco accattivante. Nulla a che vedere con altre foto utilizzate come cover, vedi su tutte quella magnifica di The Works. E poi c’è il sound che permea l’intero disco, troppo freddo, perfetto e proprio per questo privo di un certo grado di enfasi, di atmosfera. È come se la band avesse anzitutto voluto ridefinire il proprio modo di suonare, prima ancora di pensare al livello di emozioni da instillare sull’album.
Così, nella mia personale classifica, The Game sta dietro anche Hot Space e Flash Gordon, che pure sono stati criticatissimi, a volte a ragion veduta, e sono anche temporalmente contigui. Ma siamo nel campo dei gusti e quelli, si sa, funzionano benissimo solo per chi si diverte ad esternarli.