I Queen e il Sudafrica, le black list, Sinatra e la Caballé: una storia politica degli anni ‘80




Esistono storie nelle carriere dei grandi artisti capaci di suscitare dubbi, controversie e autentiche diaspore destinate a restare irrisolte, perché il passare del tempo invece di generare chiarimenti, non fa altro che confondere ancora di più le acque già torbide di vicende complesse. Per i Queen la perfetta rappresentazione di questa condizione sono i concerti che la band tenne in Sudafrica a metà degli anni ’80.


È una storia che nel film Bohemian Rhapsody è stata omessa, pur rappresentando in qualche modo il prologo della partecipazione del gruppo al Live Aid. Abbiamo già visto come a volere i Queen su quel leggendario palco fu Bob Geldof (puoi leggere QUI l’articolo), per nulla turbato dalle polemiche che accompagnavano Freddie soci fin dal 1984, quando si erano esibiti per 9 show consecutivi a Bophuthatswana, un bantustan (o enclave) sudafricana assegnata alle etnie di colore dal governo bianco nell’ambito della politica di segregazione razziale passata tristemente alla storia con il nome di apartheid.

Furono 9 concerti organizzati secondo modalità per nulla differenti da tanti altri tour della band. L’idea era quella di portare la musica dei Queen di fronte ad un pubblico completamente diverso dai precedenti, secondo quella stessa linea di pensiero che due anni dopo portò il gruppo a suonare in Ungheria (e, nell’era post 1991, anche in Asia, Russia, Israele e molti altri ancora).

Naturalmente nel 1984 esibirsi in Sudafrica rappresentava anche un rischio politico, trattandosi di un paese segregazionista e inserito nella “lista nera” delle principali democrazie occidentali. Tuttavia alla base della scelta di suonare a Sun City vi furono considerazioni che, almeno in quel momento, parvero sufficienti ad accettare il rischio. 

Tra le più importanti, la circostanza che i Queen non avrebbero fatto altro che percorrere gli stessi passi di altri musicisti, per di più di colore (George Benson e Diana Ross); la mancanza di un divieto formale che impedisse di organizzare eventi del genere in Sudafrica; la possibilità di esibirsi di fronte ad un pubblico misto.

E poi c’era la volontà della band di non assumere alcun connotato politico, limitandosi a suonare per la gente, come peraltro già fatto nei grandi concerti Sudamericani in paesi come l’Argentina, all’epoca dominati dalla dittatura. La cosa importante era non avere nulla a che fare con i politici, per evitare che ai loro concerti venisse imposta una connotazione di parte.

Le cronache di quei 9 concerti ci raccontano di un pubblico in festa e soddisfatto per la performance dei Queen. Tutto in quei giorni andò secondo i piani e protagonista assoluta furono la musica e la condivisione delle emozioni senza alcuna distinzione di razza.

Tuttavia i problemi iniziarono subito dopo, quando i Queen fecero ritorno a casa e trovarono ad attenderli una pioggia di polemiche che li spinse in seguito a formulare le proprie scuse per non aver rispettato l’embargo. A distanza di anni, Brian May e Roger Taylor hanno anche ammesso l’errore, riconoscendo leggerezza nelle valutazioni che li portarono a suonare a Sun City.

Di fatto oggi i concerti sudafricani dei Queen possono essere annoverati sotto la voce “storie controverse”, sebbene nel tempo il gruppo abbia fatto pubblica ammenda e in qualche modo riparato al danno diventando promotori di eventi in favore dell’Africa e stringendo un proficuo sodalizio con Nelson Mandela (i concerti 46664 in suo onore sono stati prodotti dalla band, così come numerose attività di beneficenza, specie nel campo della lotta all’HIV).

Inutile dunque cercare argomenti capaci di negare l’evidenza. Suonare a Sun City fu un errore. Ciò non toglie che alcune considerazioni vadano svolte, non tanto per mitigare la scomoda posizione assunta dai Queen, quanto per sgombrare il campo dai dubbi che talvolta tornano ad emergere sulla base di qualche articolo di giornale o di discussioni sorte in rete.

Se c’è un mito, ad esempio, che va sfatato è che i Queen furono gli unici ad esibirsi in Sudafrica. Prima di loro lo hanno fatto altri musicisti, ma attorno a questi nessuna polemica sembra aver lasciato traccia. La ragione è semplice e forse denota quanto l’ego e la magniloquenza dei Queen abbia giocato almeno in questo caso a loro sfavore. Perché i 9 concerti a Sun City furono annunciati con tutti i sacri crismi che si devono ad un evento simile, anzi ad un tour dei Queen. Altri artisti, invece, lo fecero in sordina, letteralmente arrivando a Sun City (o in altre città simili), suonando e ripartendo nell’indifferenza generale.

A farlo poi furono artisti di colore. Come detto, prima dei Queen avevano suonato in Sudafrica Diana Ross e George Benson. A nessuno tuttavia parve disdicevole che due musicisti di colore andassero a suonare in un paese segregazionista. Lo stesso accadde per un bianco, Rick Wakeman degli Yes, che all’epoca difese anche i Queen e che aveva preso a sua volta una buona dose di strali dalla stampa inglese. E poi c’era Shirley Bassey che, come raccontato nella Biografia Definitiva di Lesley Ann-Jones (Mondadori, 2018) applaudì la scelta dei Queen, ritenendo quei concerti un mezzo per evidenziare la stupidità dell’apartheid e la necessità che musica fosse priva di confini e destinata a tutti.

Altri musicisti che poterono suonare a Sun City senza subire conseguenze, nemmeno di carattere mediatico sono elencati sul sito www.nhamalanda.com e alcuni nomi sono certamente sorprendenti:  i Beach Boys, Linda Ronstadt, Cher, Millie Jackson, Liza Minnelli, Frank Sinatra (1981), Paul Anka, Status Quo, Rod Stewart (luglio 1983) e Elton John (ottobre 1983). 

Tuttavia nelle cronache dell'epoche e in quelle successive, l'unico nome che viene fatto è quello dei Queen, per i quali evidentemente non ci furono le stesse attenuanti e i silenzi di cui godettero artisti come Elton John, che a Sun City li avevano preceduti di parecchi mesi. 

Il paradosso ulteriore fu che nel 1987 gli Status Quo non ebbero alcuna difficoltà a suonare a Sun City, nonostante il regime fosse ancora in vigore (lo sarebbe stato per altri tre anni). Il Sudafrica era quindi un territorio sul quale tutti potevano suonare, patendo al massimo qualche articolo di giornale. Ai Queen invece venne applicato il protocollo più aspro, quello della gogna senza sé e senza ma.

C’è poi un altro aspetto della vicenda assai poco noto.

Il 10 febbraio del 1985 appare sul  Times americano un articolo a firma della giornalista Elaine Sciolino che racconta di un grande concerto in fase di organizzazione da parte delle Nazioni Unite per raccogliere fondi contro la carestia in Africa. Un evento che si sarebbe dovuto svolgere presso la sala dell’Assemblea Generale dell’ONU il 26 Aprile del 1985 e nato su impulso di un comitato chiamato “Madri Africane” e costituito da 28 mogli di altrettanti diplomatici che invitarono alcuni grandi nomi a donare il proprio tempo per la realizzazione di un concerto i cui proventi sarebbero andati al Fondo di 
Emergenza del Segretario Generale per l’Africa. L’evento avrebbe dovuto aiutare ben 20 nazioni africane che a metà degli anni ’80 stavano vivendo una profonda crisi alimentare, causata dalla persistente siccità.

Tuttavia, le lettere con cui il comitato organizzatore stava proponendo a diversi musicisti di partecipare al concerto, vennero bloccate dalle stesse Nazioni Unite perché indirizzate ai musicisti che si erano esibiti in Sudafrica e che erano quindi stati inseriti in una “black list”.

Come raccontò all’epoca Mary de Almeida, una delle organizzatrici dell’evento, le offerte da parte di artisti da tutto il mondo non erano mancate ma “sfortunatamente non erano quelli giusti”.

La lista nera era stata creata nel 1983, ma le “Madri Africane” ne ignoravano l’esistenza o il contenuto. I nomi erano tutti altisonanti. Eccone alcuni: Frank Sinatra, Ray Charles, Linda Ronstadt, Dolly Parton, Johnny Mathis, Liberace, Pia Zadora, i Beach Boys, Chick Corea, Ernest Borgnine e Glen Campbell, il Vienna Boys 'Choir, la cantante australiana Helen Reddy, l'attrice italiana Laura Antonelli, i ballerini israeliani Valery e Galina Panov. E naturalmente il gruppo rock britannico Queen.

Non mancavano poi nomi di artisti che non appartenevano al mondo della musica, come il regista Alan J Pakula (Presunto Innocente, Il Rapporto Pelican, Tutti Gli Uomini del Presidente), lo stilista francese Pierre Cardine lo scrittore Frederick Forsythe. Anche il mondo dello sport aveva il suo buon numero di nomi inseriti nella black list, atleti che in Sudafrica avevano partecipato a gare ed eventi di vario genere.

Dall’articolo apparso sul Times emerge poi un altro nome eccellente e a noi particolarmente caro, quello di Montserrat Caballé. Anche la cantante lirica era infatti inserita nella “lista nera apartheid”, tanto che nel 1983 rischiò di dover annullare una sua performance per le Nazioni Unite. In quel caso però si decide si soprassedere, forse perché si trattava del concerto annuale dell’ONU, un evento evidentemente troppo importante(!)

Non sappiamo quali altre difficoltà incontro il comitato “Madri Africane” per la realizzazione dell’evento. Di certo però nel 1985 qualcun altro riuscì nell’impresa di radunare sullo stesso palco i più grandi artisti di tutti i tempi per sostenere l’Africa, con buona pace di chi dagli alti scranni dell’ONU continuava a sventolare liste nere. Fu un concerto memorabile, che coinvolse almeno un miliardo di persone e che ridefinì completamente la storia della musica anche grazie alla straordinaria performance di una rock band britannica il cui nome era stato inserito nella black list assieme a quello di molti altri.

È indubbio che suonare a Sun City nel 1984 fu un errore. Tuttavia conoscere la storia di quel periodo, con alcuni dei risvolti politici che la caratterizzarono, può aiutare a comprendere meglio il senso di quello sbaglio e il contesto nel quale i Queen operarono una scelta così poco lungimirante.

Il testo originale dell’articolo del Times potete leggerlo QUI.