Per chi come me legge e colleziona libri sui Queen da oltre trent'anni, senza contare le riviste e i ritagli di giornale, una nuova biografia genera sempre sensazioni contrastanti. Da una parte c'è la felicità di poter aggiungere un nuovo pezzo alla propria raccolta, dall'altra si fanno strada i timori che sia l'ennesima operazione commerciale, buona per riempire gli scaffali e dare in pasto ai fans meno accorti la “solita storia” rielaborata alla meno peggio come certi remake cinematografici.
Naturalmente molto dipende dalle aspettative
del singolo lettore. La cosiddetta fan-base dei Queen è piuttosto variegata e
non mancano anche gli eccessi, come coloro che della band vorrebbero sapere
tutto, ma proprio tutto, compresi gli episodi più intimi e scabrosi. Nel mezzo,
per fortuna, tanti appassionati che desiderano solo approfondire gli aspetti
musicali e limitarsi a conoscere quelli più personali nella misura in cui possono
servire alla comprensione delle scelte artistiche operate nel corso degli anni.
E se c'è uno dei quattro Queen obiettivo
privilegiato di questa sete di conoscenza quello è ovviamente Freddie Mercury. A lui sono dedicati la
maggior parte dei libri usciti dal 1991 in poi, anche quando il titolo e la
sinossi sembrano riguardare il gruppo. Al centro dell'attenzione c'è sempre e
solo lui, Freddie. Inevitabile, forse addirittura necessario, sebbene da fan
della band sono da sempre orientato ad una visione unitaria, mentre guardo con
sospetto a quella “Freddie-centrica” che sembra andare per la maggiore, forse
anche alimentata dagli stessi Queen.
Sia come sia, un libro merita sempre di
essere letto, soprattutto se il nome del suo autore può essere inserito
nell'elenco (piuttosto breve a dire la verità ) di chi ha provato a raccontare
Freddie e i Queen con lo spirito sincero del cronista e la passione del fan, animato
da un senso profondo di ammirazione e rispetto, due qualità in campo
giornalistico non così scontate come si potrebbe sperare.
Così, dopo il suo mastodontico “Queen Opera
Omnia”, Roberto De Ponti è
tornato a raccontare Freddie Mercury con un libro dedicato al periodo più
complesso e doloroso del cantante, quello degli ultimi anni, dal ritiro dalle
scene live e fino al Tribute organizzato in suo onore nel 1992. Un arco
temporale brevissimo eppure denso di significati e di storia musicale senza
pari.
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Il racconto inizia sul palco di Knebworth,
l'ultimo concerto dei Queen con Freddie Mercury. Una scelta perfetta perché è lì
che nasce la leggenda destinata a durare per sempre, quella di un frontman
capace di farsi immortale attraverso la propria musica. Quel concerto fu la
classica svolta epocale, andata ben oltre la semplice chiusura di un tour dai
mille record. È la prima pagina perfetta di una biografia che punta dritto
verso il proprio obiettivo: mettere sotto il riflettore l’artista prima ancora
che l’essere umano, quello più privato verso cui nutrire rispetto prima ancora
che curiosità . Del resto l’autore con la sua “Opera Omnia” ha già dimostrato
quale sia il range della propria
scrittura, tutta (o quasi) orientata a sottolineare gli aspetti artistici e
sorvolando su quei buchi della serratura da cui molti (purtroppo) vorrebbero
poter spiare ancora oggi.
Come raccontano le cronache, il filmato di
quel concerto è purtroppo andato perduto, ma la sua importanza storica è
rimasta comunque indelebile. Di fronte a quelle 200 mila persona Freddie ha
realizzato il suo ultimo spettacolo con la band, ha donato se stesso come solo
lui sapeva fare, offrendo al pubblico un repertorio incredibile, identico a
quelle delle tappe precedenti del Magic Tour, eppure ancora più potente e
significativo, sebbene si tratti della classica interpretazione a posteriori.
Ma, come hanno raccontato i Queen in seguito, c’era davvero qualcosa di unico e
speciale in quel concerto, un velo di malinconia che presto sarebbe divenuto un
elemento inevitabile dei passi successivi della band, da quel momento in poi
impossibilitata a tornare in tour.
Ma Knebworth, pur potendolo essere, non fu la
chiusura del cerchio, per quanto sarebbe stato perfetto così. I Queen andarono
oltre quella possibile conclusione del loro cammino e lo fecero per espresso
desiderio dello stesso Freddie, per nulla disposto a lasciarsi vincere dalla
malattia. Così il racconto imbastito da De Ponti abbandona le luci del palco e
si addentra negli studi di registrazione dove i Queen continuarono a lavorare e
ripercorre idealmente anche le stanze e i corridoi di Garden Lodge, la dimora
dove Freddie costruì la dimensione più personale di sé, quella fatta di oggetti
d’arte, porcellane giapponesi e quadri, ma anche cene, feste e momenti di pura
allegria in compagnia dei suoi amici più cari. Senza dimenticare, ovviamente,
le attività soliste che Freddie intensificò nella consapevolezza che il tempo a
disposizione si stava inesorabilmente riducendo.
Proprio la rinuncia al palco ha trasformato
l’esistenza di Freddie Mercury in qualcosa di molto diverso rispetto agli anni
precedenti. De Ponti lo spiega perfettamente raccontando le nuove dinamiche che
i Queen dovettero per forza di cosa accettare, ma anche illustrando i progetti
a cui il cantante si dedicò con passione, su tutti la realizzazione di
Barcelona con Montserrat Caballé cui il libro dedica ampio spazio, dando
finalmente la giusta rilevanza ad un album che ha segnato la nascita di un vero
e proprio genere, la commistione tra pop e lirica, un esperimento rimasto fino
ad oggi insuperato sebbene continui ad essere imitato.
Inevitabili anche i tanti approfondimenti
sulla vita privata di Freddie, un argomento su cui è stato detto e scritto
davvero troppo, spesso a causa di “amici e amanti” (le virgolette sono mie) che
nel corso degli anni non hanno mancato di dire la loro sul suo stile di vita, le
abitudini, gli interessi, le frequentazioni. Una quantità di materiale su cui
sorvolare credo sia (quasi sempre) doveroso e che De Ponti riesce ad affrontare
con la dovuta accortezza, senza mai cedere alla tentazione di scandagliare quei
momenti privati che tali devono restare ancora oggi. Per farlo l’autore si
attiene alle fonti più attendibili, ovvero Peter Freestone (assistente
personale di Freddie), Brian May e Jim Hutton, ma non manca di offrire qualche
interpretazione in più, dimostrando di saper cogliere le incongruenze e le
posizioni personalistiche non sempre aderenti alla realtà .
E poi ci sono i Queen, la cui storia è legata
a doppio filo a quella di Freddie, tanto che parlare di uno rende impossibile
escludere l’altro. Così la biografia di De Ponti ripercorre, seppur per sommi
capi, alcuni dei momenti più importanti della carriera della band, anche
antecedenti al 1986, offrendo al lettore l’opportunità di conoscere o
semplicemente di riassaporare i successi e momenti strabilianti di un’avventura
musicale irripetibile. Perché alla fine ciò che conta è soprattutto la musica e
se vuoi raccontare davvero Freddie Mercury non puoi prescindervi solo per il
gusto di addentrarti in un contesto privato che peraltro lui stesso ha sempre
cercato di difendere nei limiti del possibile, per separare nettamente ciò che
sapeva essere sul palco da ciò che desiderava fare nel privato.
Nel rispetto del titolo, De Ponti non rinuncia
ad indagare anche il tema più difficile, quello della malattia, analizzando il
progredire dell’infezione da HIV, anche tenendo conto del contesto sociale e
culturale in cui l’AIDS ha preso piede negli anni ’80, quando era vista come
uno stigma destinato a pochi, una visione oscura che ha certamente influenzato
anche la volontà di Freddie di mantenere segreto il proprio stato di salute. Ma
anche in questo caso De Ponti scrive con delicatezza, limitandosi a dare valore
alla profonda umanità e forza con cui Freddie ha affrontato una sofferenza che
deve essere stata estrema, ma senza mai smarrire la bussola che si è dato,
ovvero la musica. Anche nel dolore, infatti, Freddie ha sempre considerato le
sue canzoni come il rifugio ideale per sfuggire alla propria sorte.
Il racconto si fa così più intenso e il
lettore ha la possibilità di seguire Freddie che lavora a The Miracle, poi a
Innuendo e infine a quella manciata di brani inediti che in seguito Brian,
Roger e John completeranno per Made In Heaven. Sono i capitoli in cui De Ponti
smette i panni del cronica e indossa quelli del narratore. Non si limita a
elencare didascalicamente le session di registrazione e i brani realizzati ma
prova, riuscendoci, a restituire l’atmosfera, le emozioni vissute in studio,
l’atteggiamento assunto da Freddie, dal resto dei Queen e dallo staff di
tecnici che lavorarono accanto alla band fino all’ultimo.
L’epilogo lo conosciamo tutti, è tragico e
ancora oggi getta sui fans di tutto i mondo un’ombra di nostalgia per una
perdita incolmabile. De Ponti sa raccontarlo soffermandosi soprattutto sulla trasformazione
avvenuta quella sera del 24 Novembre del 1991, quando Freddie ha smesso di
essere semplicemente il cantante dei Queen ed è diventato ciò che ha sempre
desiderato essere, una leggenda indimenticabile. E poi aggiunge quel passo in
più realizzato dai Queen con il tributo sul palco di Wembley, ritorno ideale
per chiuderlo davvero quel fatidico cerchio rimasto appena socchiuso nel 1986,
anche se poi la storia della band ha ripreso inaspettatamente a correre verso
nuove direzioni.
“L’ultimo
Freddie Mercury”
è una lettura che conquista, anche grazie allo stile di Roberto De Ponti,
scorrevole e curato. Una biografia ricca di curiosità , una vera e propria summa
di tutto quanto scritto sul frontman dei Queen fino ad oggi, che mette in
risalto i meriti artistici di Freddie ma senza tacere del tutto della sua vita
privata. Un libro che piacerà ai fans di lungo corso ma anche agli appassionati
dell’ultima ora che desiderano avere un quadro particolareggiato degli ultimi
anni di vita di un mito immortale.
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