Mio Caro Freddie...

 

Nel 1991 avevo 15 anni. A quell’età non bisognerebbe mai perdere i propri idoli. Sei troppo giovane, il tuo cuore ancora troppo acerbo per essere capace di accogliere quel dolore inatteso, potente, che ti scava dentro fino a strapparti via qualcosa che ti porti nel profondo e che non sei in grado di definire.


Quel giorno tornai a casa dopo aver passato la mattinata seduto al banco della mia classe. Seconda fila, vicino alla finestra, un buon posto da cui potevo osservare gli alberi mossi dal vento e il sole d’autunno che faceva brillare le foglie cadute tra l’erba. In sottofondo le lezioni, le voci dei professori che si alternavano. Mi sforzavo di seguirli, ma col pensiero tornavo al pomeriggio precedente quando in tv avevano dato, in contemporanea, Live at Budapest dei Queen e al telegiornale la notizia della malattia di Freddie.

Con l’HIV si può vivere per anni, dissi a me stesso e ripetei ai miei genitori che con sguardo dolente mi diedero la notizia. In quel momento Freddie era di fronte a me sul palco, in tutto il suo splendore. La morte non poteva toccarlo. Ci credevo davvero.

Tornai a casa senza sospettare nulla, una giornata qualsiasi di un mese come tanti altri eppure, appena arrivato capii che qualcosa non andava. Lo leggevo sui volti dei miei genitori e di mio fratello. Si muovevano attorno a me con circospezione, come se l’aria si fosse fatta all’improvviso troppo densa. Mi chiesi se non avessi combinato qualche guaio naturalmente. Poi mi sedetti a tavola, la televisione rigorosamente spenta, solo il rumore delle posate contro i piatti e poco altro.

Me lo dissero alla fine, quando erano ormai sicuri che non avrei smesso di mangiare. Freddie non c’è più. Una frase piccola, minuscola, eppure tagliente come un coltello che ti entra dentro e ti sfonda il cuore. Compresi subito, non dissi nulla. Me ne andai in camera mia, infilai sul piatto del giradischi Bohemian Rhapsody. La feci suonare a ripetizione per almeno un paio d’ore, quasi fosse un mantra capace di riportarlo in vita. E piansi, disperato, afflitto, incapace di contenere le emozioni, la tristezza, il bisogno di credere che no, non era vero.

Nei giorni successi non parlai molto. Mi succede sempre quando qualcosa di ferisce. Mi chiudo nel mio mondo, non faccio entrare nessuno, tranne la musica dei Queen. Quella c’è sempre, la voce di Freddie è un baluardo contro tutti i mali del mondo. Ed è una cura, per l’anima.

Sono passati 29 anni, un’eternità. Non sono più quel ragazzino che provava a sconfiggere la morte con la musica. Ho una visione della vita e del suo ciclo completamente diversa. Eppure quella morte io non l’ho ancora accettata. Non riesco a parlare di Freddie al passato, davvero. Lui è qui, ogni giorno e continua ad essere una medicina meravigliosa contro gli affanni inevitabili della vita.

Certe volte mi domando se questo attaccamento abbia un senso, se sia giustificato. In fondo Freddie di me non sapeva nulla e io stesso non posso dire di averlo mai davvero conosciuto. Ma quelle canzoni, quelle meravigliose canzoni, lui le ha cantate per me. Sul serio. Ogni volta che ha inciso la sua voce o che è salito sul palco, Freddie lo ha fatto per me, riuscendo a definire perfettamente le emozioni che provavo in quei momenti. E ci riesce ancora oggi, tutti i giorni.

E continua a farlo anche per te che stai leggendo queste parole. Freddie canta per te! È il tuo eroe, il tuo conforto, il tuo migliore amico, quello che sa cantare l’amore quando sei innamorato e che riesce a darti forza quando le cose proprio non vanno.

È una specie di magia, un miracolo, qualcosa che ti fa dire: sto sognando? Così oggi, nel giorno in cui il mondo intero ti ricorda, siamo qui mio caro amico per dirti grazie, mille volte grazie. Tu sai perché.