White Man, il canto dei Queen per rendere giustizia agli Indiani d’America




Se vi è capitato di leggere vecchio articolo sui Queen precedente al 1991 è assai probabile che vi siate anche imbattuti in una critica che la stampa specializzata ha mosso spesso alla band, quella di essere socialmente e politicamente troppo disimpegnata.


In effetti i Queen hanno sempre scelto di mantenersi a debita distanza da ogni disputa che avesse a che fare con la politica. Una scelta dettata dalla volontà di scrivere canzoni per la gente che non costituissero anche una presa di posizione di parte su temi controversi.

Del resto, il rapporto tra la politica e la musica è una questione assai dibattuta e, come spesso accade, anche in questo caso ci sono diverse correnti di pensieri e nessuna può essere definita più giusta dell’altra. Così alla fine ci si può solo affidare alla propria sensibilità personale per decidere se apprezzare testi più “leggeri” rispetto ad altri più “impegnati” e soprattutto politicamente orientati.

Diverso invece il discorso per l’impegno sociale, anche se si potrebbe legittimamente obbiettare che soprattutto i temi sociali sono anche argomenti politici. Sia come sia, in questo caso non mancano nel repertorio dei Queen canzoni che hanno affrontato in modo piuttosto diretto alcuni argomenti che, pur nella loro genericità, possono essere iscritti nel campo dell’impegno sociale. Un esempio su tutti, forse il più famoso, è Is This The World We Created, scritta da Brian May e Freddie Mercury e che può essere considerata la canzone ecologista dei Queen. E poi potremmo citare One Vision, con i suoi riferimenti a Martin Luther King ad opera di Roger Taylor (autore principale del pezzo, come ho spiegato nell’articolo che potete leggere QUI) e anche The Miracle con la sua invocazione per un mondo migliore e pacifico.

Ma se c’è un brano che segna in modo assoluto l’impegno sociale dei Queen, quello è senza ombra di dubbio White Man. Pubblicata nel 1976 sull’album A Day At The Races e scritta da Brian May, White Man è un’invettiva potente (sia nella musica che nelle parole) contro l’uomo bianco, reo di aver sterminato i popoli nativi americani con la sua sete di conquista e di distorta “evangelizzazione del selvaggio”.

Noi occidentali abbiamo una percezione degli Indiani d’America assai sbagliata, frutto dell’indottrinamento di decenni di cinema western che ha (quasi) sempre dipinto i nativi americani come popoli crudeli, poco civilizzati e dediti esclusivamente alla guerra. È una visione profondamente sbagliata, un autentico falso storico che Brian May ha messo in musica con uno dei testi più forti mai usciti dalla sua penna.

White Man, infatti, è una vera e propria invettiva contro “l’uomo bianco” reo di aver ingannato i nativi americani per poi soffocarne nel sangue la cultura. Brian ha scritto il testo proprio dal punto di vista di un indiano che fin dalle prime strofe disegna perfettamente ciò che è accaduto in quelle terre remote:

Sono un uomo semplice, con un nome semplice. Siamo nati in queste terre dove viviamo in modo semplice, ma lo straniero invasore ha costruito strade sul nostro sangue e sul nostro coraggio

E ancora:

Uomo bianco, hai accecato i miei occhi ingenui, hai oscurato l’orizzonte, ma dove ti nasconderai ora che per sfuggire all’inferno che hai creato?

Ma il punto forse più significativo è quando Brian mette a confronto la cultura dei nativi con quella degli europei giunti in America da conquistatori:

L’uomo rosso conosce la guerra, ma tu uomo bianco hai giurato sulla tua Bibbia e hai combattuto con l’inganno. Sei arrivato fin qui con le tue armi e i nostri bambini sono morti per mano tua

La conclusione cantata dal protagonista di White Man è a sua volta una drammatica profezia rivolta contro l’invasore, al quale urla attraverso la voce di Freddie:

Uomo bianco non ti importa niente di tutto il sangue che hai versato? Sulla tua tomba verranno scritte queste parole: “Un uomo che imparò come insegnare, ma che dimenticò come imparare”

In quest’ultima strofa il chitarrista fa suo lo spirito dei nativi americani, sempre improntati al riconoscimento di un insegnamento più alto da tutto ciò che accadeva al loro popolo. Così traduce in versi ciò che l’uomo bianco è diventato nella sua sete di conquista, un essere capace di insegnare la propria verità restando sordo a tutto ciò che può ancora imparare.

E, in effetti, sulla cultura indiana è calato un velo di omertà, necessario a seppellire nel profondo della terra intrisa di sangue lo sterminio, non solo fisico, ma anche spirituale e culturale portato avanti dagli europei con scientifica e crudele implacabilità.

Fortunatamente esistono numerose pubblicazioni oggi che consentono di riscoprire tradizioni e verità storiche che, come detto, sono state oggetto di profonde distorsioni da parte di una retorica tutta occidentale che ha tentato di narrare versioni di comodo delle proprie nefandezze.

Vi consiglio, tra i tanti, il bel libro “Sai che gli alberi parlano? La saggezza degli indiani d’America” di Kathe Recheis e Georg Bydlinski uscito nel 2002 per Il Punto d’Incontro Editore che ha, tra le sue proposte editoriali, una collana interamente dedicata agli indiani (Saggezza Pellerossa).



Il volume contiene una una raccolta unica nel suo genere sulla saggezza e la spiritualità degli Indiani d'America. Fgiure come Orso in Piedi, Alce Nero, Tatanga Mani, Momaday e Ohiyesa diventano veri e propri testimoni del profondo amore e del rispetto che i nativi americani hanno sempre nutrito per la natura e per la vita.

Aspetti questi che devono certamente aver colpito profondamente Brian May, che già nel 1976 stava sviluppando quella coscienza sociale che oggi si traduce nelle molteplici iniziative che lo vedono protagonista a difesa dell’ambiente e non solo.