Quella
mattina di Novembre del 1991 a Londra piove. Piccole gocce d'acqua, sottili
come punte di spillo cadono gentili sugli ombrelli spianati lungo le vie. Fa
freddo e l'odore dell'asfalto bagnato si mescola con quello dei profumi tipici
della periferia. Un rivenditore ambulante di panini arranca in cerca di un
riparo spingendo con determinazione il suo carretto. Una donna guadagna
rapidamente un portone mentre con un giornale ormai zuppo cerca di proteggere
l'acconciatura fresca di parrucchiere. Forse è per quello che non si accorge
delle tre persone appena scese da un grosso taxi nero e che rapidamente
guadagnano l'ingresso di un pub. L'insegna a quell'ora è ancora spenta ma i tre
sanno di potervi trovare un sicuro riparo.
Quando
Mike li vede entrare è intento a spazzolare il bancone del pub ancora macchiato
dei bagordi della sera prima. Li osserva uno ad uno e decide di non dire
niente. Resta per un istante con lo straccio intriso di birra stretto tra le
dita e prova ad indovinare dalle espressioni dei loro volti cosa possa fare per
loro. Poi capisce che hanno bisogno del loro solito tavolo, quello messo in
fondo alla sala, nascosto da occhi indiscreti con un separè. I tre conoscono la
strada e si dirigono verso il tavolo mentre Mike prepara tre pinte di birra. Sa
cosa è successo e da buon barista è convinto che una dose di alcool sia spesso
l'unica consolazione possibile, anche quando sei di ritorno da un funerale.
Brian,
Roger e John si siedono attorno al tavolo a capo chino. Guardarsi negli occhi
in quel momento vorrebbe dire mettersi a nudo dopo mesi trascorsi a negare con
tutti, anche con sé stessi. Ora che Freddie è morto e lo strano rito
zoroastriano ha scritto la parola fine, non resta che guardarsi dentro. Fare i conti
con le proprie debolezze è il lascito che chi muore impone a chi, invece,
resta. Non sono le lacrime a far male, ma la consapevolezza che nonostante
tutto si debba andare avanti. È Brian a pensarci più di tutti. Nelle orecchie
sente ancora la voce di Freddie che canta The Show Must Go On. Come hai fatto a
cantarla Fred, si domanda con lo sguardo perso tra le venature del tavolo.
“Facciamo
qualcosa di grandioso! Una di quelle cose che Freddie avrebbe pensato e che ci
avrebbe spezzato la schiena per realizzarla”. È Roger a gettare per primo la
maschera. Sono venuti in quel pub perché è il loro rifugio, perché nel silenzio
ovattato di quella sala i pensieri possono finalmente prendere forma.
“Di
cosa stai parlando?” chiede John interpretando i dubbi che Brian ha manifestato
sollevando un sopracciglio.
“Ragazzi
vi sto dicendo che dobbiamo mettere in piedi un fottuto show. Freddie era un
cantante. Allora cantiamo e suoniamo la sua musica”.
Brian
e John si guardano ancora una volta. Ora nei loro occhi non c'è più
perplessità , ma una piccola scintilla. Forse è un nulla che si perderà nel
vuoto lasciato dalla morte di Freddie. Oppure sarà la speranza che torna a
fiorire. Suonare, eseguire i vecchi pezzi, stare su un palco di fronte al loro
pubblico. Ecco la risposta che cercavano. È stato facile trovarla. Del resto è
Freddie ad aver indicato loro la strada. Andare avanti, sempre.
Il
Freddie Mercury Tribute Concert è nato così. Fu una decisione presa dai Queen
senza alcuna interferenza esterna. Non c'erano manager né case discografiche
pronte a cogliere un'occasione di guadagno così ghiotta. Si trattava solo di
dire grazie ad un amico scomparso. Chi sopravvive deve andare avanti, ma chi
non c'è più non può essere dimenticato. Fu così che iniziò una fitta rete di contatti
allo scopo di mettere assieme un cast capace di attirare il maggior numero di
persone. L'idea era sì di rendere omaggio a Freddie ma anche di costituire
un'organizzazione capace di raccogliere fondi per la lotta all'aids. Nelle
tante interviste rilasciate da Brian e Roger a proposito del Tribute sono
emerse sia le grandi difficoltà organizzative (mai prima di allora era stato
fatto un concerto del genere), ma anche tutto l'affetto e l'aiuto che
ricevettero dai colleghi. Su tutti si distinsero i Def Leppard e i
Guns'n'Roses, due band che soprattutto con Brian strinsero rapporti di amicizia
che durano tuttora. Ma tutti diedero comunque il loro contributo, fuori e sul
palco. Certo non fu semplice fare delle scelte e abbinare ad ogni artista la
canzone giusta. Più di tutto fu lacerante dover eseguire per la prima volta un
intero concerto dei Queen senza Freddie. Proprio per questo sulle note di
copertina della vhs e di tutte le edizioni successive si fa sempre riferimento
alla presenza di Brian, Roger e John quasi che in quell'occasione non fossero i
Queen a suonare ma solo tre amici di Freddie.
I
giornali scrissero moltissimo su quell'evento e nessun organo di informazione
poté sottrarsi dal commentare “il più grande concerto della storia”. I fans vissero
quel giorno con il cuore pieno di gioia eppure appesantito da una tristezza
infinita. Non mancarono le lacrime, nemmeno tra i giornalisti presenti allo
stadio di Wembley. Quel 20 Aprile 1992 accadde qualcosa di straordinario e
irripetibile. Un'onda emozionale attraversò il pianeta, letteralmente visto che
i telespettatori furono stimati in un miliardo di persone. Ancora oggi
rievocare quel concerto scatena una ridda di sensazioni difficilmente
spiegabili. Il fatto è che ognuno di noi vuole bene a Freddie e in quel
concerto c'è la manifestazione collettiva più evidente di un sentimento che
ormai travalica il semplice essere fans. Chi legge questo commento e non ama la
musica dei Queen non capirà di certo queste parole. Tutti gli altri, ne sono
certo, sorrideranno e forse brinderanno con una pinta di birra nel buio di un
pub.
Le
ultime settimane erano state incredibili. L'immensa macchina organizzativa
necessaria a realizzare un concerto di quella portata avrebbe sfiancato
chiunque. Brian e Roger avevano passato ore al telefono per tessere quella
trama di contatti necessari per portare sul palco artisti di fama
internazionale e idoli del momento. L'idea era quella di radunare musicisti in
grado di offrire al pubblico generi e interpretazioni musicali diversi tra
loro, in puro stile Queen. Così i Guns'n'Roses furono scelti perché
rappresentavano in qualche modo l'anima più trasgressiva della band; gli
Extreme, invece, incarnavano perfettamente la poliedricità di Freddie e non
avevano mai nascosto di considerare i Queen tra i loro massimi ispiratori.
C'erano poi band come i Metallica che pur essendo apparentemente lontani anni
luce dagli stili musicali dei Queen, proprio a loro avevano tributato un
sorprendente omaggio con la cover di Stone Cold Crazy. In più la band di James
Hetfield aveva da poco conquistato i primi posti delle classifiche mondali con
il Black Album e il Tribute aveva bisogno di richiamare l'attenzione di quanta
più gente possibile. Non si poteva quindi rinunciare a sfruttare le charts del momento.
Allo
stesso modo non si potevano omettere nomi storici, legati ai Queen e a Freddie
da profonde amicizie, primi fra tutti Elton John, David Bowie e Robert Plant.
Ciascuno a modo suo incarnava un altro pezzo dell'anima variegata dei Queen.
Soprattutto erano – e sono ancora oggi – tre colonne fondamentali della storia
della musica. Prescindere da loro voleva dire omettere le radici musicali dei
Queen stessi. E naturalmente ci fu la scelta azzeccata di George Michael che ha
regalato alla storia una delle performance più belle di sempre con Somebody To
Love. Secondo molti sarebbe stato lui il cantante perfetto per sostituire
Freddie nei Queen e ancora adesso il suo è il nome più gettonato quando si
torna a parlare di una reunion del gruppo. C'è una storia attorno al suo nome
che non ha mai trovato una conferma definitiva, anche se qua e là Brian e Roger
hanno dato chiare indicazioni. Dopo il Tribute ci fu effettivamente un
tentativo di coinvolgere George nei Queen, ma tutto saltò perché da un lato lui
era troppo impegnato con la propria carriera solista, dall'altro rimpiazzare
Freddie appariva impossibile oltre che prematuro. Ironia della sorte quello di
George Michael è forse l'unico nome che riuscirebbe davvero a mettere d'accordo
tutti i fans, la cui maggior parte invece rifiuta categoricamente ogni altra
soluzione.
Le
prove per il concerto si svolsero nel giro di alcune settimane precedenti al 20
Aprile presso i Bray Studios, nella periferia londinese. Di quei momenti
restano un paio di video e una manciata di foto, bellissime come lo sono sempre
quelle che ritraggono assieme artisti così incredibili. Anche sulle prove
circolano voci e indiscrezioni, su tutte il fatto che John Deacon vi abbia
partecipato poco e svogliatamente, tanto da sfuggire all'impegno concedendosi
una vacanza nel bel mezzo del lavoro. Di certo però non mancano scatti che lo
ritraggono durante le prove, per cui è davvero difficile valutare l'entitÃ
della vicenda.
Anche
se si era deciso di strutturare il concerto in due parti, con i Queen sul palco
solo nella seconda, Brian, Roger e John sapevano di dover comunque presentarsi
di fronte al pubblico per aprire lo show. A pochi minuti dal loro ingresso, si
accorsero che attorno a loro si era formato un vuoto, quasi che i membri della troupe
e gli altri artisti avessero compreso la delicatezza di quel momento. Essere su
un palco, di nuovo insieme dopo così tanti anni e senza Freddie. Brian provò un
brivido lungo la schiena e si domandò per la prima volta se quella sensazione
di vuoto pneumatico sarebbe mai passata del tutto. John, come al solito
taciturno, considerava strano al limite del bizzarro che proprio a lui sarebbe
toccato pronunciare la frase “the show must go on” alla fine del discorso.
Roger invece sembrava assente e il movimento frenetico delle dita, orfane delle
fidate bacchette tradivano tutto il nervosismo dell'attesa. Con gli occhi della
mente rivedeva vecchie immagini e i giorni che erano stati la loro vita
scorrevano in un caleidoscopio di colori e suoni. Dio quanto gli mancava
Freddie in quei momenti. Vederlo allungare i muscoli poco prima di salire sul
palco o magari improvvisare un duetto nei camerini per preparare le voci gli
aveva sempre trasmesso serenità . Ora che tutto questo non c'era più, anche un
terreno sicuro come il palco metteva i brividi.
Quando
una voce alle loro spalle gli diede il via, bastarono pochi passi per
ritrovarsi di fronte ad una folla sterminata. Il boato del pubblico faceva
vibrare le strutture dello stadio e i loro cuori. “Siamo i Queen e tutto questo
ci appartiene. Grazie Freddie”, pensarono con il rammarico di essere solamente
in tre in un momento così magico. Eppure lo spettacolo era davvero iniziato e
nulla avrebbe potuto fermare la musica. Due ore e mezzo dopo, quando le ultime
note di We Are The Champions si spensero in mille echi per lasciare posto
all'ingresso trionfale di Freddie vestito da Re/Regina fu chiaro a tutti che la
Fenice era ancora lì in mezzo a loro e che lo spirito immortale di Freddie
Mercury non avrebbe mai smesso di cantare.