Siamo reduci dall’annuncio delle Nomination agli
Oscar, con Bohemian Rhapsody che ha portato a casa ben 5 candidature, tra cui
quelle come Miglior Film e Miglior Attore. Non c’è quindi niente di meglio che
restare in compagnia di Brian May, intervistato da Akira Saheki, inviato di
NHK. Si tratta della seconda parte della lunga conversazione avuta anche con
Roger Taylor (e che potete rileggere QUI).
Ho visto sul tuo Instagram che sei andato a vedere Bohemian Rhapsody con tuo nipote. Come è stato?
E' stata una grande esperienza. Penso che sia stato un momento
formativo. Sono sicuro che lo ricorderà per il resto della sua vita,
perché è andato a vedere un film con suo nonno che parla di com’era la vita del
nonno. E per me è stato grandioso, perché ho bisogno di quel legame e non
ho molte possibilità di essere sempre presente con i miei nipoti in quel
modo. Ho sette nipoti ed è difficile stare al passo con loro. Ma
quello è stato un momento prezioso.
Il film è stato un
grande successo in Giappone. Le persone sono andate a vederlo anche cinque
o sei volte. Perché pensi che abbia attratto così tante persone e quale
messaggio pensi che offra?
Siamo entusiasti di aver fatto così bene in Giappone e, naturalmente, il
Giappone ha avuto un ruolo enorme nel renderci ciò che siamo. Quando siamo
andati in Giappone per la prima volta, ci hanno trattato come se fossimo i
Beatles. Ma ovunque nel mondo eravamo solo una band agli esordi, quindi
abbiamo una storia meravigliosa con il Giappone. Ma da quello che ho
sentito, il film si è connesso con un pubblico ancora più ampio del solo
Giappone, il che è fantastico. Perché? Non lo so. Penso che il film
abbia una buona onestà , una specie di onestà spirituale. Questo è stato un
viaggio per me. Non penso di aver capito cosa fosse un film biografico
fino a quando non lo abbiamo fatto. Un film biografico è un tentativo di
arrivare sotto la superficie. Non è come un documentario in cui metti
insieme solo alcuni pezzi di video e delle opinioni. Un film di questo genere è
un tentativo di dipingere un'immagine di qualcuno. Non solo quello che
sembrano ma anche quello che sentono e ciò che li guida. E penso che alla
fine sia stato fatto molto bene. Non è stato facile. È stato un
viaggio difficile. Ma penso che quello che vedi sia un ottimo ritratto di
un uomo, un uomo eccezionale, Freddie, e tu vedi la sua vulnerabilità , che è
importante, e vedi anche la sua forza, e poi vedi le battaglie che avvengono
dentro di lui. Questo è quello che penso abbia determinato il successo del
film. Non si tratta davvero tanto dei fatti. Non si tratta di se avesse i
baffi in un particolare momento, o quando ciò accadesse. Si tratta di
provare a dipingere un'immagine e capire cosa c'era dentro
quell'uomo. Penso che sia per questo che è una specie di cosa universale,
e penso che forse il film sia un po' più insolito di quanto la gente pensi
all'inizio. Alcuni critici lo hanno preso per il suo valore nominale e
hanno detto: "Non è giusto, questo tour è sbagliato" e penso che
abbiano mancato il punto che non è un documentario, è un ritratto e un dipinto
di qualcuno. E naturalmente riguarda qualcuno che è prezioso per noi e ci
sono voluti 9 anni per arrivare al punto in cui abbiamo capito che sarebbe
stato un buon ritratto di Freddie. Ne è valsa la pena aspettare.
In un'altra intervista
hai detto che la scena che ti ha commosso di più è quella in cui Freddie annuncia
di voler fare un disco senza i Queen. Puoi dirci di più?
Adoro quella scena in particolare perché penso che si veda la grande
personificazione in Freddie ottenuta da Rami. È un attore
fantastico. Il film ha una buona sceneggiatura, alla fine, ma lui è andato
oltre la sceneggiatura, ed è entrato in Freddie e, in quei momenti in cui lo
vedi un po' girovagare nervosamente, puoi vedere cosa sta succedendo nella sua
testa. Sta pensando: "Non voglio dirlo, ma devo dire questo alla
band". E' stato un momento molto difficile e penso che catturi davvero
quella sensazione per Freddie. Aveva questa grande voglia di esplorare
l'altra parte di sé in una carriera da solista, ma sentiva anche molto dolore
perché eravamo una famiglia. Puoi vederlo non voler apparire disturbato,
ma è disturbato. Mi piace. È molto Freddie. Freddie era sempre
molto vivace. Diceva: "Non voglio parlare di questo. Va bene".
Ma dentro, sapevi che stava facendo le sue battaglie, quindi mi piaceva vedere
quella scena e sono contento che sia nel film.
Nelle interviste
precedenti, hai detto più volte che "Freddie è Freddie". Che
cosa vuoi dire con questo?
Freddie è Freddie. Beh, era insolito. Non so cosa intendo in un
caso particolare, ma Freddie era una persona senza compromessi, come avrebbe
detto lui stesso. E penso che i compromessi fossero dentro di lui, ma non
voleva farli emergere, come se questo fosse compromettente, perché voleva avere
una posizione di forza. Quindi questa è una cosa insolita. Penso che la
maggior parte di noi al mondo voglia piacere alla gente. Sentiamo il
bisogno di essere graditi e abbiamo bisogno di accontentarli. Freddie non era
fatto così. In qualche modo andava oltre e se non voleva fare qualcosa
diceva "No, non lo faccio" e se qualcuno voleva un autografo in un
momento particolare in cui stava facendo qualcos'altro, avrebbe detto "No,
fanculo caro", il che è piuttosto scortese, ma tutti capivano che era così
concentrato che per lui reagire così aveva invece senso. Aveva una sua libertà . Freddie
ha rappresentato una sorta di libertà alla quale tutti aspiriamo, che è la
libertà di non essere guidati da nessuno. Puoi sembrare egoista, ma in
effetti, ottieni di più in questo modo.
È interessante perché
ha sempre apprezzato la folla.
Penso che quello fosse il suo
obiettivo. Sapeva qual era la sua missione. Voleva fare quella cosa
con il pubblico. Voleva fare la sua musica e voleva che i Queen fossero
una forza in questo mondo. Quindi tutto ciò che non era favorevole all’ottenimento
di questo risultato lui se ne sarebbe sbarazzato. Quindi immagino che
riguardi il quadro generale piuttosto che i dettagli.
Il film si è
concentrato anche sulle difficoltà che sentiva in quanto parte di una
minoranza. Come amico, hai mai visto o parlato di questo con lui?
No, non abbiamo parlato direttamente di queste
cose molto spesso. Occasionalmente lo facevamo, ma a volte scriveva una
canzone in cui una certa conversazione veniva attivata perché stavamo cercando
di incanalare i nostri sentimenti. Un buon esempio è It’s A Hard Life. Dimentica
il video per un momento e pensa alla canzone. Per me è stata molto
significativa perché si tratta di Freddie che prova a mettere i suoi sentimenti
direttamente in una canzone, il che è insolito. Se guardi a My Fairy King o
Bohemian Rhapsody, o March of the Black Queen, è tutto abbastanza
obliquo. Non è una conversazione diretta, ma Hard Life lo
è. Sembra una canzone leggera, ma in realtà c'è molto dolore. E ci fu un
momento in cui Freddie ed io ci confrontammo, ed eravamo entrambi molto
sofferenti all'epoca. Avevamo entrambi a che fare con problemi sentimentali
e stavamo lavorando a questa canzone in un modo che univa ciò che stavamo
provando. Ora, lui aveva quei sentimenti per un uomo. Io li avevo per
una donna, ma era la stessa cosa. Era la stessa storia che stavamo
raccontando, così in quei pochi momenti sentivo di aver comunicato molto sul
dolore con il quale avevamo a che fare. E metterlo in una canzone è una
buona cosa perché ti aiuta, libera le persone che la ascoltano. Sentono che la
canzone è su di loro, e aumenta la comprensione tra le persone, penso. Non
importa dove ti trovi o quanto successo hai. Puoi essere circondato da
tutto ciò che è materiale, ma puoi ancora sentire dolore dentro, e questo è il
modo in cui gli umani comunicano, attraverso il loro dolore, i loro desideri e
il loro bisogno di connettersi. La necessità di connetterci ci fa essere
uniti.
A proposito di Live
Aid, che è l'apice del film. Quanto è stato importante per i Queen quel
momento?
Il Live Aid è stato un perno, credo, e nel film
lo è di nuovo. È un po' metaforico perché si vedono certe pressioni materiali
delineate, ma in realtà , per noi è stata una cosa interiore. Perché, anche
se avevamo ancora successo, eravamo ad un punto in cui non avevamo molta
fiducia e forse ci sentivamo come se avessimo raggiunto un luogo in cui non non
stavamo riuscendo più ad essere creativi nel modo giusto. Non stavamo
comunicando l'uno con l'altro. Quindi andare avanti ed essere questo
gruppo in un contesto così diverso come il Live Aid ci ha dato un po' di
coraggio. Non è proprio quello che vedi nel film. Era più sulla
fiducia interiore che sulla fiducia esteriore, ma penso che sia una buona
metafora.
E quello che è successo è che siamo andati
avanti senza il nostro solito spettacolo, per di più in un momento in cui c’era
ancora luce. Gli spettacoli dei Queen erano sempre al buio, con le luci
molto drammatiche. Non le avevamo al Live Aid. Non avevamo i nostri
costumi perché non aveva senso indossarli senza le luci. Non avevamo il
nostro solito sistema audio, quindi tutto è stato fatto in un ambiente per noi
alieno. Era un tipo diverso di veicolo, un'auto diversa che guidavamo,
quindi andare avanti e farlo e scoprire che eravamo ancora uniti è stato molto
importante L'altro ingrediente importante è che il pubblico non era il nostro
pubblico. È un pubblico che ha comprato i biglietti per vedere tutti gli
altri e non noi, così siamo andati là fuori pensando: "Come sarà ? Abbiamo
la forza? Abbiamo il potere di farlo?" Era un momento cruciale ed è
stata una sicurezza per noi, e poi siamo stati in grado di ritrovarci un po' di
più. E poi siamo tornati in studio abbiamo fatto One Vision, godendoci di nuovo
le cose. Penso che sia la cosa importante. Penso che forse il
divertimento si fosse allontanato e il Live Aid ci ha restituito la sensazione di
essere qualcosa di importante, di poter fare le cose, di avere la forza di
creare di nuovo.
Quella fase è ora una
scena iconica. Roger Taylor ci ha detto che quando suonava la batteria
durante Radio Gaga, vedeva la gente battere le mani e in quel momento pensava
"Sta andando alla grande". Ti ricordi un momento specifico in
cui lo hai pensato?
È stato lo stesso per me, nello stesso momento,
quel momento, perché il pubblico fa un sacco di rumore, applaudendo e cantando,
ma quando abbiamo fatto Radio Ga Ga, e quando è arrivato quel momento e tutti
stanno facendo il "boom" , boom, stomp", è stato davvero un
brivido per tutti noi, perché improvvisamente abbiamo pensato che questo non
fosse il nostro pubblico, ma loro sanno cosa siamo e sanno cosa fare per connettersi
con noi. E' stato un momento straordinario. Non lo dimenticherò mai. Penso
che tu possa vedere se guardi il video, puoi vedere cosa succede alla band in
quel momento. Abbiamo una nuova energia a quel punto. Puoi vederlo
nel film, con Rami e Gwilym, che fa un lavoro incredibile nell’essere me. Penso
che quei ragazzi abbiano fatto un lavoro monumentale nel ritrarre non solo
quello che appariva esteriormente, ma anche quello che provavamo dentro. Questo
è il segreto del film, penso. Non si tratta solo degli eventi, si tratta
di ciò che abbiamo sentito e di com'era.
È passato quasi mezzo
secolo dagli anni '70, ma i Queen stanno ancora conquistando nuovi fan più
giovani e nuovi fan delle generazioni precedenti. Cosa rende la band così
speciale o unica?
Questa è sempre la domanda difficile a cui
rispondere. Il film mi ha svelato qualcosa perché, dal momento in cui
abbiamo fatto il Live Aid fino a poco tempo fa, sono sempre stato sorpreso,
perché la gente vede qualcosa di speciale in quello che abbiamo fatto in quel
concerto, mentre io non lo vedevo per davvero. Avevo visto cose su
YouTube, ma nel fare il film e nel rivedere quella roba, ho iniziato ad
apprezzarlo e a capire che era qualcosa di speciale e magico. Penso che sia il
fatto che comunichiamo su un livello emotivo molto basilare. Si tratta di
parlare delle emozioni che tutti proviamo, e penso che sia qualcosa che emerge
chiaramente al Live Aid. Freddie è stato molto bravo a coinvolgere tutti fino alle
ultime file dello stadio. Avevamo un vantaggio al Live Aid perché avevamo
già fatto concerti negli stadi in Sud America, quindi conoscevamo la dinamica
di certi posti e questo ci ha permesso di raggiungere tutti. Ma soprattutto lo
ha fatto Freddie. Lui aveva quell'abilità che aveva affinato e penso che
sia un mezzo di comunicazione. È un canale per il grande spettacolo, ma è
anche un canale per il contenuto emotivo di ciò che c’è effettivamente nelle
canzoni. Riguarda i sogni e le delusioni, l'amore e il desiderio di
liberarsi. "Voglio liberarmi, voglio tutto." Questo genere
di cose le sentiamo tutti, non solo le rockstar, ma tutti sentono queste
emozioni. Penso che se c'è un segreto per i Queen è proprio questo, di
riuscire a parlare alle persone da persone e non da rockstar.
Perché la band ha la
capacità di reinventarsi più e più volte e fare nuova musica? Cosa gli ha
dato questa chimica?
Siamo stati fortunati. Abbiamo avuto una
buona chimica interna e noi quattro abbiamo sempre tirato in direzioni
opposte. Questa è una situazione instabile ma è molto creativa. Ci siamo
sempre criticati a vicenda e cercavamo sempre di condurre la band nella
direzione che ognuno preferiva. John Deacon, ad esempio, aveva una visione
completamente diversa di dove voleva essere. È molto per il funk, mentre Roger
è per il rock and roll tradizionale. Freddie è tutto, dal balletto all'opera. Vuole
solo espandersi. E io, penso che cerco sempre di rendere i Queen più complessi. Mi
piace il ritmo, mi piace l'hard rock. Quindi ci sono queste quattro
persone completamente diverse che cercano sempre di condizionare quanto accade in
studio, e ciò che accade in studio impone cosa succede fuori. Lo studio è
dove quei semi sono cresciuti e diventano piante. Ci chiedevamo sempre:
quanto lontano possiamo andare? Cosa possiamo fare? Possiamo provare
questo? Possiamo provare quest’alstro? Non abbiamo mai voluto creare
lo stesso album più di una volta.
A proposito del
Giappone. I Queen ha un rapporto molto lungo e buono con il nostro
paese. Cosa sapevi del Giappone prima di andare lì per la prima volta?
Non avevamo idea, era come parlare della Luna. Avevamo
visto alcune foto, non so se avessi incontrato dei giapponesi, ma eravamo così
poco informati. Non avevamo idea di cosa sarebbe successo. Era come
un altro pianeta per noi. Penso che a quei tempi i paesi fossero ancora più
diversi. Penso che sia un peccato che in tutto questo internet e
internazionalismo abbiamo perso parte della magia di essere diversi. Siamo
andati in Giappone e tutto era diverso. Tutti i colori erano diversi,
tutte le strade erano diverse. Non c'erano nomi inglesi per le strade e la
maggior parte della gente non parlava inglese, quindi se andavi a piedi a Tokyo
e ti perdevi, eri davvero perso. Giravamo con l’indirizzo del nostro hotel
scritto su un foglio. La prima volta siamo arrivati all'aeroporto e c'erano
migliaia di ragazze che urlavano. Abbiamo pensato, "Non siamo i
Beatles, cosa sta succedendo qui?". Abbiamo fatto gli show alla
Budokan, il primo, e all'improvviso ci fu una tale massa di eccitazione ed
energia che ci ha sconvolti, e penso che ci spinse davvero in un nuovo
posto. Siamo diventati persone diverse in questo ambiente. Era
davvero qualcosa di straordinariamente potente. I fan ci hanno portato questi
bellissimi giocattoli tradizionali in legno, oggetti di carta, bambole, spade e
ci siamo improvvisamente saturati in questa meravigliosa cultura diversa, ed
erano così gentili. Gli inglesi tendono ad essere molto riservati e
freddi. I giapponesi per noi erano immediatamente calorosi, gentili ed
entusiasti di vederci. È stata un'esperienza incredibile che non
dimenticherò mai. Ogni volta che torniamo, lo sento ancora. Sento
ancora quella rigenerazione. E la cosa terribile è lasciare il Giappone,
perché sembra che tutte le volte riusciamo a creare delle relazioni molto
profonde, tanto che poi l'addio è straziante. Lasciamo sempre il Giappone
a disagio ed emotivamente svuotati. È una relazione insolita che abbiamo
con il Giappone, e non vedo l'ora di tornare.
Hai partecipato all'album
tributo per il grande terremoto del 2011, che è stato apprezzato da molte
persone nel paese.
Ci sentiamo vicini. Sentiamo una sorta di
responsabilità , penso. È così strano per la nostra generazione perché la
generazione di mio padre era in guerra con il Giappone. Mi ricordo che
quando andai per la prima volta fu come, "Quindi sei andato in Giappone ed
era tutto ok?". Per lui è stato difficile perché tutta la sua vita era
stata basata quel tipo di conflitto, e gli ho mostrato molte cose che sono
successe, i regali e i suoni del pubblico, e lui si è reso conto di quanto
fosse meraviglioso. Ma la nostra generazione ha forgiato una nuova relazione
tra la Gran Bretagna e il Giappone. Penso che sia stato importante, e
penso che duri. Questo è il lato più serio. Sono un internazionalista
e cosa sta succedendo nel mondo al momento, questo tipo di rinascita del
nazionalismo con tutti i mali che questo comporta, è qualcosa che io odio
davvero. Odio l'idea di noi che usciamo dall'Europa. Penso che sia un
passo indietro. Mi piace costruire ponti e non muri, quindi odio quello
che succede in America. Quindi spero che questa sia solo una specie di
periodo che il mondo sta attraversando, e dopo averlo fatto possa tornare a
rendere il mondo un pianeta unito, facendo diventare una comunità la comunitÃ
del mondo.
Hai posti specifici
in cui vai in Giappone o cose specifiche che fai?
Suppongo di sì. In qualche modo, è bello
rivivere momenti. Cos'è quel piccolo mercato con il tempio? È
Asakusa? Lo adoro perché ricordo di aver portato i miei figli lì quando
erano molto piccoli, e nel mio libro di Queen in 3-D c'è una foto di me che tengo
per mano mio figlio Jimmy e lui guarda queste campanelle e ovviamente si gode
tutti i colori e lo scintillio delle cose. Quindi molto spesso torno là e
rivivo quell'esperienza. Adoro i giardini. Adoro andare a Kyoto per
vederlo. E c'è un particolare hotel che mi piace a Tokyo che ha un
bellissimo giardino, quindi mi sento molto bene quando torno
là . Probabilmente meglio non dire di cosa si tratta. Cos'altro
facciamo? Non lo so? Ci sono così tanti luoghi particolari in
Giappone. Penso che riguardi il sentimento generale e mi piace incontrare
le persone. E le cose cambiano. Immagino che le persone ci trattino
come se fossimo delle star, sai, mentre all'inizio era tutto nuovo e diverso e
siamo stati in grado di raggiungere il pubblico. È difficile essere popolari
in qualsiasi posto nel mondo ora perché le cose sono cambiate. È
meraviglioso che le cose siano cambiate e che siamo diventati riconoscibili, ma
rende le interazioni diverse e talvolta più difficili. Ricordo che nel primo
tour ci fu tutto questo urlare negli spettacoli, ma fuori incontrammo persone e
avevamo solo interazioni molto normali. È stato carino. Quindi forse
non è possibile così tanto adesso, ma è quello che cerco. Mi piace il cibo
e mi piace l'atmosfera, mi piacciono i sentimenti. Mi piace il modo in cui
la gente giapponese pensa. Mi piace l'idea del rispetto, e lo senti non
appena incontri una persona giapponese. È una cosa culturale. Penso che il
modo in cui le persone si trattano l'un l'altro sia diverso in ogni paese, ma
in Giappone inizi con l'idea del rispetto, il fatto che ti inchini e ti metti
leggermente al di sotto di qualcuno che incontri. È un modo molto
affascinante per iniziare una relazione. Penso che sia un modo molto
salutare, molto bello.
(N.B. Questa
intervista è stata realizzata il 13 dicembre 2018)
(Fonte:
www3.nhk.or.jp)