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Sono in piedi davanti allo
specchio dell'ingresso già da qualche minuto. Tento di sistemare la sciarpa
attorno al collo, ma quella non vuole saperne di restare infilata sotto il
bavero del cappotto. La sciolgo, provo a farla girare attorno in un altro
verso. Alla fine la spingo a forza sotto il maglione e tiro su la cerniera.
Prima di uscire controllo per l'ennesima volta di avere tutto ciò che mi serve.
Il portafogli in una tasca, le chiavi e il cellulare nell'altra. Avverto una
vibrazione sulla coscia. L'ennesima notifica che per oggi decido di ignorare.
Alla fine tiro un lungo sospiro ed esco.
Fuori mi accoglie l'abbraccio
gelido dell'inverno. È arrivato all'improvviso, anche quest'anno. Il berretto
calato sulla fronte mi tiene caldo e nasconde alla vista una porzione di cielo
grigio. Ho deciso di raggiungere il cinema a piedi. Per questo sono uscito
presto. Ho bisogno di camminare, di mettere tra un passo e l'altro i pensieri
che da giorni tentano la scalata senza successo dal profondo della mia
coscienza.
Per raggiungere la multisala
devo attraversare una porzione del mio quartiere, superarne un altro e seguire
un lungo ponte sospeso sulla vegetazione nata spontaneamente attorno a un corso
d'acqua. Da qualche anno laggiù è sorto anche un parco.
Mentre cammino a passo svelto
mi soffermo un istante ad ammirare i rami di un albero. È maestoso, ma le
fronde rinsecchite dalla stagione lo fanno assomigliare ad un corpo emaciato,
stanco. Forse è per questo che non posso fare a meno di immaginare la sponda
del lago di Montreux dove Freddie ha passeggiato tante volte prima che la
malattia gli impedisse di muoversi. Lo vedo con gli occhi della mente stretto
in un lungo cappotto scuro, lo sguardo nascosto dietro gli occhiali da sole,
circondato da gente che non ci bada troppo a quella figura solitaria e nemmeno
lo riconosce. Lo osservo mentre si china verso l'acqua e tende la mano per
sfiorare il becco di un cigno che coraggiosamente ha conquistato la riva in
cerca di cibo. Poi Freddie sorride e riprende il suo cammino. Io faccio
altrettanto, con l'insegna del cinema ormai prossima.
2
Quando arrivo all'ingresso gli
sportelli con le casse stanno appena iniziando la loro attività. Ammetto con me
stesso di essere in grande anticipo. Ma è una scelta voluta. Acquisto i
biglietti e mi soffermo davanti alla locandina gigante che annuncia l'uscita di
Bohemian Rhapsody.
Quanti mesi di attesa sono
trascorsi. Quante notizie, ipotesi, considerazioni. E quante discussioni,
talvolta anche tumultuose con chi su questo film ha costruito le proprie
personali aspettative. L'ho fatto anche io naturalmente, ma adesso che sono a
pochi minuti dalla visione del risultato, inizio a chiedermi seriamente cosa
sto per vedere.
Non è la prima volta che ci
ragiono su. Si tratta di mettersi sulla spalle il bagaglio giusto di idee, per
non correre il rischio di essere lo spettatore sbagliato davanti al film che
non ti aspetti.
La locandina mi aiuta con le sue
indicazioni. Bohemian Rhapsody è stato scritto da Anthony McCarten,
sceneggiatore premio Oscar che ha ereditato la storia da un altro
pluripremiato, Peter Morgan. E poi naturalmente c'è il produttore esecutivo,
Graham King, c'è la Fox e c'è Bryan Singer, il regista. Ognuno ha
necessariamente dato il proprio contributo, ha introdotto un elemento di sé che
per forza di cose ha determinato la narrazione cui sto per assistere.
E poi ci sono Brian May e Roger
Taylor, consulenti e detentori della storia dei Queen, circondati da
collaboratori di lungo corso, amici, persone che hanno conosciuto Freddie o
esperti di tutto ciò che riguarda la carriera della band. I ricordi personali e
intimi mescolati con le necessità proprie del cinema. In fondo è questo Bohemian
Rhapsody. L'incrocio tra due realtà così simili e, allo stesso tempo, talmente
differenti che l'esito può essere un disastro. Oppure un successo. Al momento,
mentre il vento si dà da fare sulle mie spalle per provare a smuovermi, non so
decidermi su quale delle due ipotesi sia la più probabile. Così resto fermo,
mentre l'atrio del cinema inizia ad animarsi di luci, profumi e di quel senso
di attesa simile al pulviscolo agitato dai raggi del sole. Una sospensione del
tempo che è anche vibrazione emotiva.
3
Nel frattempo sono arrivate
altre persone. Voci sconosciute che chiedono uno o più biglietti per Bohemian
Rhapsody. Volti giovani, alcuni palesemente adulti. E ci sono anche bambini,
coppie in là con l'età. Esattamente lo stesso pubblico dei concerti più recenti
dei Queen. Inizio anche a sentire la stessa energia provata in quei momenti,
quando l'arena sportiva prestata alla musica inizia a riempirsi attorno al
palco celato dietro i teli e gli schermi giganti.
E così all'improvviso trovo la
risposta che cercavo. È sempre stata lì, nell'elemento più importante, la
musica. Si, adesso so qual è il modo giusto di vivere Bohemian Rhapsody.
Ripenso a tutte le volte che ho acquistato un loro album e alle sensazioni che
ho provato ascoltandoli per la prima volta. Testi autobiografici, ma non
interamente reali. Storie sincere eppure mediate attraverso l'ispirazione del
momento. Penso proprio al brano scritto da Freddie. Canta di un uomo che ne
uccide un altro, forse se stesso, e di una fuga disperata, mentre cerca rifugio
sicuro nell'invocazione rivolta alla propria madre. È tutto vero? O è solo
frutto della fantasia. Entrambe le cose. Proprio come deve essere un film.
4
Finalmente giunge il momento di
entrare al cinema. Non sono da solo. Accanto ho l'unica persona che so potrà
accogliere le mie emozioni. Non è una fan come me, pur avendo messo piede in
questi anni nella passione per i Queen grazie alla mia garbata insistenza. Ci
sediamo mentre anche gli altri spettatori prendono posto. Sono già in onda gli
spot pubblicitari, minuti buoni in cui controllare le notifiche sul cellulare,
scattare una foto, rispondere frettolosamente a chi ha scelto proprio quel
momento per chiamarti.
Sono nervoso, non posso
negarlo. Nell'ultimo anno ho visto foto e video dal set. Ho letto interviste e
cercato di cogliere la verità dietro indiscrezioni e dichiarazioni. Ho lavorato
al mio personale bagaglio di aspettative. Ma tutto adesso cede il posto ad uno
stato di tensione che brucia mente e corpo. Cerco di trovare una posizione comoda.
La signora che mi sta accanto coglie la mia difficoltà, ne è infastidita e
decide di lasciare tra noi una poltrona vuota. Lei non lo sa, ma apprezzo il
gesto. Voglio spazio. Aria. Voglio avere davanti a me solo lo schermo e accanto
chi può capirmi e accogliermi.
E poi succede. Non dovrebbe
essere nulla di sorprendente. Non è certo la prima volta che sono al cinema.
Eppure, quando le luci si spengono e la Red Special di Brian replica la sigla
della 20th Century Fox trattengo il fiato. Ci siamo. Eccoci. Non
posso più fuggire. Le note di Somebody To Love mi prendono per mano, lo fanno
con delicatezza e mi trasportano al di là dello schermo.
A questo punto, mentre sono
davanti al computer a scrivere questa storia, vorrei poter lasciare un grande
spazio bianco, qualcosa di accecante in cui scivolare tutti assieme mentre
leggete queste parole. Un posto caldo e accogliente, nel quale ritrovarci tutti
assieme a ridere e commentare. Allo stesso tempo però sento il bisogno di
spiegare, raccontare, di ripercorrere la storia del film. Un lungo flashback
della memoria, una macchina del tempo emotiva i cui ingranaggi scorrono a
ritroso e mi riportano a Londra, tra gli operai stanchi addetti ai bagagli e
quel giovane di origini indiane che si lascia passare davanti agli occhi gli
adesivi di mille nazioni, immaginando che un giorno le potrà conquistare
dall'alto di un palco.
Rami ci offre la prima immagine
di Freddie. Giovane, capelli lunghi, incarnato scuro, labbra pronunciate e
denti da coprire con le mani quando ride. Eppure nella sua fisicità ancora non
del tutto definita si intravede quella grandezza che nel giro di pochi anni
farà parlare tutto il mondo. Sto già guardando le prime scene pensando che
quello sia Freddie. È un buon segno, non c'è dubbio.
Il film inizia da quando la
famiglia Bulsara ha dovuto abbandonare Zanzibar, ma l'elemento che emerge è
soprattutto la conflittualità tra il giovane Farrokh e il padre, mentre la
madre appare subito più indulgente verso questo figlio così compresso nelle
tradizioni di famiglia. Sullo sfondo, proprio come nella vita vera, la timida
Kashmira, che guarda al fratello con un misto di sospetto per quel coraggio che
dimostra nello sfidare la figura paterna e una buona dose di invidia vestita di
sottile ironia, forse perché vorrebbe essere proprio come lui.
È difficile stabilire se quelle
tensioni abbiano un fondo di verità, magari perché raccontate da Brian e Roger
o se, piuttosto, siano una libera interpretazione dello sceneggiatore. Non c'è
dubbio però che l'adolescenza di Freddie non deve essere stata semplice. Troppo
tumulto in quell'animo ancora tutto da far sbocciare, soprattutto mentre il
boato della grande città, Londra, si faceva sentire col suo richiamo.
5
L'incontro con Brian May e
Roger Taylor (che si interseca con quello con Mary Austin), ancora componenti
degli Smile, è la prima dichiarazione di intenti del film. Ci spiega cosa
stiamo vedendo. Non una ricostruzione pedissequa della storia, ma un racconto
che a un certo punto ha avuto l'opportunità di essere calibrato, cesellato, al
limite anche destrutturato allo scopo di offrire non una narrazione
documentaristica, ma una rappresentazione dei contenuti, dei significati
profondi.
Ecco quindi che arriva la
defezione di Tim Staffell (che meraviglia la sua Doing All Right rifatta in
questi giorni e già ascoltata nella colonna sonora del film) e l'intuizione di
Freddie che lo spinge a proporre l'unione dei rispettivi talenti. Qui il film
si fa romanzo, lo sappiamo. Le cose andarono diversamente ed è un peccato che
sia stato tralasciato il rapporto di amicizia pre-esistente tra lo stesso
Freddie e Roger Taylor. Ho immaginato per lungo tempo la bancarella dove
vendevano abiti usati in Kensington Market e ho intravisto il momento in cui
David Bowie acquistava proprio da loro un paio di stivali.
Nel film invece è stata scelta
una versione più semplice, così come l'ingresso nella band di John Deacon, che
arriva all'improvviso già con il primo show con Freddie. Per un fan dei Queen
non sono dettagli da poco. Sono frammenti di una storia bellissima a cui siamo
tutti legati in modo viscerale. Eppure non riesco a odiare le scelte
cinematografiche che mi vengono proposte fotogramma dopo fotogramma. Il film
continua e io ne resto rapito.
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Se c'è una cosa dei Queen che
ho sempre adorato è quel senso di ironia che permea il carattere dei componenti
della band e anche il loro modo di fare musica. Sono felice che questo elemento
nel film sia rappresentato, quasi fosse una sorta di linea guida che in qualche
modo tiene lo spettatore ancorato ad emozioni disincantate, in attesa dei
momenti più duri della trama.
E così rido quando la band
presenta il progetto A Night At The Opera all'unico personaggio di fantasia del
film. Un produttore musicale che, sebbene reduce da un album capolavoro come
The Dark Side Of The Moon dei Pink Floyd (meravigliosa citazione questa che
tradisce dove i Queen collochino il loro album), non intende lasciarsi
persuadere dalle manie di grandezza di quei quattro musicisti così pieni di sé.
La scelta di far interpretare
il ruolo a Mike Myers non è solo il meritato omaggio a chi dei Queen ha fatto
la fortuna in America nei primi anni '90 (grazie al film Fusi di Testa), ma è
anche un intermezzo che fa ridere di gusto e spiega, dopotutto, quali erano le
reali sensazioni attorno al gruppo. Perché oggi il pubblico li percepisce come
la band dai grandi successi, eppure c'è stato davvero un tempo in cui dovevano
lottare per essere considerati all'altezza.
L'animosità tra il produttore e
la band è il ponte che introduce lo spettatore in uno dei passaggi fondamentali
del film e della carriera stessa dei Queen. La nascita di Bohemian Rhapsody.
Visitiamo gli studi dove realizzeranno gran parte del disco, scopriamo quanto
le differenze caratteriali tra i quattro generano quegli scontri da cui per
paradosso sono nate le cose migliori fatte dalla band. Soprattutto ci viene
svelata in rapida progressione quale sia la visione di Freddie: diventare il
più grande attraverso la realizzazione di una musica mai fatta prima, ambiziosa
e capace di travalicare i generi, spingendo gli altri membri del gruppo e i
tecnici a sperimentazioni ardite eppure efficaci, quasi che anche la limitata
tecnologia dell'epoca si sia inchinata di fronte a tanta grandezza.
È da quel momento che Bohemian
Rhapsody inizia a sviluppare una doppia narrazione. Da un lato i successi
sempre più crescenti della band, sottolineati da allestimenti scenografici via
via più sontuosi, pubblico più vasto e riprese che crescono in termini di
eleganza ed efficacia. Dall'altro gli arabeschi dell'anima con i quali Freddie
inizia un confronto che presto diventa scontro e, infine, totale liberazione.
Si parte con semplici accenni, magari uno sguardo lanciato ad un camionista di
passaggio nel retro di un locale (in questo caso concedere un'apparizione ad
Adam Lambert è stato perfetto, quasi a voler chiudere una sorta di cerchio con
la storia dei Queen di oggi). In questo senso l'interpretazione di Rami non può
non sorprendere. Sullo schermo il suo sguardo si accende di patimenti, dubbi, timori,
di tutta una ridda di emozioni che solo un grande attore è in grado di svelare
senza il supporto di una battuta. Sarà per questo che mentre guardo il film
penso di assistere alla consacrazione di un professionista di cui si continuerà
a parlare.
7
Più il film mostra il lato
complesso di Freddie, più rilevante si fa la figura di Mary Austin,
interpretata da una Lucy Boynton la cui bellezza lascia sgomenti ogni volta che
appare sullo schermo. L'importanza di Mary nella vita di Freddie è nota, ma non
per questo rappresentarla in un film era cosa facile. La complessità del loro
rapporto umano richiedeva una sensibilità tutta particolare. In questo Rami e
Lucy sono stati indubbiamente aiutati da qualcosa che ha travalicano la linea
di demarcazione tra realtà e finzione. Perché su quel set i due attori si sono
innamorati per davvero e la potenza di quel sentimento li ha certamente aiutati
a rappresentare, descrivere, raccontare un passaggio essenziale come quello in
cui Mary spinge Freddie alla dichiarazione più dura.
Tutto avviene in un salotto. I
due sono seduti su un divano. È capitato a tutti noi di condividere uno spazio
così esiguo con la persona amata. È successo a tutti di doverne ferire il cuore
in modo irrimediabile. E Freddie lo fa. Ma non di sua spontanea volontà. Ci riesce perché è Mary a guidarlo, a
spingerlo verso una spiegazione che lei conosce già da tempo è che per l'amato
sarà soprattutto liberazione. Mary lascia che Freddie le spezzi il cuore. In un
gesto di umana resa, si allontana verso la finestra. Forse con lo sguardo cerca
già un nuovo orizzonte verso cui dirigersi. Tenta anche di sfilarsi l'anello
che Freddie le ha regalato (Dio mio, voleva sposarla!). Lui glielo impedisce.
Le chiede un sacrificio, l'ennesimo. Di restargli accanto. Per sempre. Noi lo
sappiamo, lei lo ha fatto per davvero. Vederlo rappresentato sullo schermo
genera un moto di infinita compassione per questa donna e per un uomo che è
finalmente diventato se stesso attraverso il sacrificio di un sentimento. Se
questo è il cinema, allora lo amo. Con tutto me stesso.
8
Il doppio binario narrativo del
film prosegue con la rappresentazione dei Queen in tour, nelle conferenze
stampa di presentazione degli album e impegnati sui set dei loro video. Viene
mostrata la realizzazione di I Want To Break Free e anche qui è innegabile la
deviazione dalla storia per come la conosciamo. Piuttosto che mostrare Freddie
e gli altri membri del gruppo assolutamente felici di prendere parte a quel
gioco, il film sfrutta l'occasione per sottolineare la sempre più crescente
separazione tra Freddie e gli altri tre. Questa è la parte del film in cui la
figura di Paul Prenter diventa sempre più invasiva e determinante delle scelte
operate da Freddie. Prenter è un personaggio odioso, viscido, opportunista e
anche profondamente solo che vede nella grandezza di Freddie un mondo nel quale
anche lui deve entrare a tutti i costi, non come ospite di riguardo ma come
protagonista assoluto. Sappiamo che, in effetti, la sua presenza accanto a
Freddie è stata malsana, addirittura distruttiva. Nel film ci viene presentato
soprattutto come il fattore di disturbo, quello che spacca l'armonia
all'interno dei Queen.
Anche in questo caso resta
difficile stabilire quanto mostrato nel film sia aderente in modo assoluto con
la realtà. Bohemian Rhapsody offre tanti tagli e salti temporali, scelte non
facili da digerire per il fan che a quella storia è legato tanto da dirsene
innamorato. Risulta difficile accettare l'esibizione di Rio negli anni '70,
oppure l'eccessiva semplificazione di alcuni tratti caratteriali, su tutti la
figura di Roger Taylor, non del tutto convincente. Il problema, se tale può
essere definito, è che siamo di fronte ad un film che tenta di fare molte cose
assieme e tutte maledettamente difficili, a partire dalla volontà di raccontare
la storia di un personaggio che tuttavia, per natura stessa della vicenda
narrata, non poteva essere l'unico protagonista, anche se gli altri personaggi
rischiano a tratti di apparire come meri comprimari.
Allo stesso modo rifletto sul
fatto che alcune scelte narrative potevano essere rappresentate in modo
diverso. Penso ai rapporti interni alla band, che in alcuni momenti sembrano
legati essenzialmente alla vita da studio, mentre sono omessi passaggi
altrettanto fondamentali come la vita in tour o, ancora di più, quei dialoghi
più intimi e privati attraverso i quali negli anni i rapporti tra i quattro si
sono definiti e cementati.
Ma è altrettanto innegabile che
portare sullo schermo tutto questo avrebbe richiesto un dispendio di tempo e
risorse ben più ampio, probabilmente a livello di quelle sontuose trilogie cui
ci ha abituato il cinema di uno come Peter Jackson, tanto per citare un nome a
me caro. Ma non era questo il caso. Bohemian Rhapsody doveva rappresentare, e ci
riesce benissimo, uno spaccato della storia di Freddie e dei Queen. Non
l'esatta descrizione, non l'approfondimento documentaristico ma, piuttosto, la
visione d'insieme, quasi il gusto generale di qualcosa che lo spettatore
sceglierà di approfondire autonomamente, proprio perché il film funziona a più
livelli, da quello emotivo a quello di mera rappresentazione di una storia.
9
La trama si fa intensa quando
la rottura tra Freddie e il resto del gruppo diventa ineluttabile, sospinto con
maligna e per certi versi patetica ostinazione da un Paul Prenter sempre più
demiurgo delle scelte di un uomo che, complice la separazione da Mary, vede
ampliarsi nel profondo quel senso di solitudine che nel corso della sua
carriera lo ha portato a scrivere canzoni drammatiche come Somebody To Love o
It's A Hard Life.
Interessante a questo punto
l'ingresso nella vita di Freddie di Jim Hutton. Devo ammettere che di lui ho
sempre avuto una visione non del tutto positiva. Tutta colpa di un libro che,
scritto da un giornalista, raccoglie le dichiarazioni di Jim in un momento
difficilissimo della sua esistenza, subito dopo la morte di Freddie. Innegabile
però l'abnegazione avuta da Jim nei confronti del compagno. Una profonda
dolcezza che nel film emerge nonostante al personaggio siano concesse poche
inquadrature. Eppure si coglie l'essenza della sua figura che a un certo punto
diventerà essenziale per il benessere di Freddie. Va detto che anche in questo
caso la storia del loro incontro è stata romanzata e forse trattata con eccessiva
celerità. Ma sappiamo che in fase di post-produzione sono stati tagliati almeno
40 minuti. Sono tante le cose ridotte all'essenziale o addirittura
completamente eliminate nel montaggio finale. Su tutti l'assistente storico di
Freddie, quel Peter Freestone che pure del film è stato uno dei consulenti.
Ma i Queen si sciolsero
realmente a un certo punto, come racconta Bohemian Rhapsody? E fu colpa di
Freddie? Alla prima domanda è necessario rispondere con un no secco. In effetti
tra il 1984 e il 1985 la band continuò ad andare in tour ed incidere canzoni,
sebbene i rapporti personali all'interno del gruppo fossero logori e accesi da
continue discussioni. Alla seconda domanda si può rispondere così: la
responsabilità di certe tensioni non era solamente di Freddie, ma la sua scelta
di incidere un disco solista al di fuori del contesto Queen fu determinante per
l'acuirsi della crisi. Molti giustamente sottolineano in proposito che non fu
Freddie il primo ad avventurarsi fuori dalla band. Roger lo aveva fatto ben
prima, con un singolo già a metà degli anni '70 e ben due album all'attivo agli
inizi degli anni '80. Tuttavia il batterista aveva realizzato “le sue cose”
sotto la stessa etichetta dei Queen e senza mai allontanarsene. Il Mr Bad Guy
di Freddie, invece, avrebbe potuto avere un impatto ben diverso sulla storia
della band qualora avesse avuto successo. Contrattualmente e stilisticamente
era di quanto più lontano si potesse immaginare dai Queen. Non fu una rottura
dunque, ma una prova generale in vista di qualcosa di potenzialmente diverso.
10
A questo punto il film
introduce un nuovo capitolo. Il periodo degli eccessi nei quali Freddie visse
soprattutto nel trasferimento dei Queen a Monaco di Baviera, anche se in
Bohemian Rhapsody viene lasciato intendere che ad andarci fu solamente Freddie
dopo la “rottura” con il gruppo. Ancora una volta l'interrogativo con cui si
apre Bohemian Rhapsody (la canzone) emerge in tutta la sua forza: stiamo
assistendo a un momento di realtà o è tutta opera di fantasia. La risposta è,
come spesso accade, nel mezzo. Perché le feste esagerate dei Queen sono un
fatto storicamente noto e mai del tutto raccontato, così come gli eccessi nei
quali Freddie amò vivere per un certo periodo della sua vita. Per quanto possa
far male ammetterlo, in quella fase Freddie commise tanti errori e
inevitabilmente divenne qualcosa di diverso da ciò che era stato fino a quel
momento. Forse sarebbe sbagliato dire che era allo sbando. Ma è fuori di dubbio
che seguire il percorso tracciato per lui da Paul Prenter lo portò ad
immergersi in un mondo di lussuria e pericolosità nel quale alla fine, almeno
in parte, si perse.
11
Un gruppo di uomini fa sesso su
un divano. Accanto a loro una modella china su un vassoio sniffa della cocaina,
mentre sullo sfondo Freddie danza a petto nudo contornato da ospiti incipriati
che agitano calici di vino verso il soffitto. Le notti movimentate di Monaco
potevano essere rappresentate così nel film. Ma non c'è niente di tutto questo.
Solo degli accenni, dei riferimenti espliciti eppure non disturbanti, che allo
spettatore concedono tutte le spiegazioni di cui ha bisogno senza necessità di
rimestare nel torbido di una certa dissolutezza che, lo sappiamo c'è stata.
Guardando il film ho pensato
che tutto questo non poteva essere fatto che così. Perché talvolta per colpire
lo spettatore non è necessario mostrare in modo diretto. Un ammiccamento o una
sottolineatura dettata da un movimento della telecamera hanno il potere di
imprimersi maggiormente perché non urtano la suscettibilità di chi osserva e al
contempo ne cattura l'attenzione.
12
Mentre scrivo il pomeriggio ha
iniziato a cedere il passo alle ombre della sera. Ho scritto tanto e ancora
tanto vorrei dire. Sto ripercorrendo Bohemian Rhapsody attraverso le scene per
me più rilevanti. Cerco di mettere assieme gli aspetti emotivi con quelli più
ragionati. So anche che tante cose che poi considererò importanti mi stanno
sfuggendo. Riassumere un film è impossibile. Ancora più difficile è offrire
l'esatto resoconto di ciò che ho visto e provato. Mi tornano in mente, ad
esempio, i momenti più auto-celebrativi, come la creazione di We Will Rock You
e Another One Bites The Dust, certamente romanzati e cronologicamente
posizionati a vantaggio della sceneggiatura. Ripenso agli omaggi presenti nel
film, su tutti quello a Montserrat Caballé con Freddie che ascolta un suo disco
mentre cerca un contatto almeno visivo con una Mary sempre più distante. Tante
cose da evidenziare e analizzare, per il puro piacere di condividere con voi idee
e sensazioni, quasi che questo film sia stato una sorta di passeggiata in un
giardino. Ci passi attraverso, ti stupisci delle forme e dei colori ma alla
fine ciò che ti resta più impresso sono i profumi colti quasi a livello
inconscio e che non saprai mai definire fino in fondo.
13
La vita di Freddie sul finire è
stata tragica. Sappiamo fin dall'annuncio del progetto che in Bohemian Rhapsody
la sua morte non sarebbe stata trattata. È stato invece sempre detto
chiaramente che della malattia si sarebbe parlato. In che modo? Anzitutto
anticipando il momento in cui Freddie scopre di aver contratto il virus
dell'HIV, creando una cesura storicamente inattendibile con l'esibizione del
Live Aid.
Questo è probabilmente il
cedimento della verità più grande visto nel film. Perché è fuori di dubbio che
chi non conosce la storia dei Queen legherà quella performance ad un sentimento
che tuttavia non sarebbe giusto nutrire. Quello di un Freddie che già
consapevole di avere i giorni contati regala al mondo uno show leggendario.
Questo non è mai successo. Non in quel dato momento storico, perlomeno.
Eppure nel film acquisisce un
valore indiscutibile, che fa soprassedere su una scelta così controversa.
Perché in effetti Freddie qualcosa del genere l'ha fatta veramente, incidendo
canzoni fino alla fine e non smettendo mai di essere ciò che desiderava da
sempre: un cantante e un amante della vita attraverso la musica.
Dire che Freddie ha inciso The
Show Must Go On in condizioni già precarie non è tanto diverso da offrircene la
versione in cui l'impresa avviene sul palco di Wembley. La forza, la
determinazione, la volontà di Freddie sono elementi ben presenti in questa
parte del film che non ha l'obbligo di raccontare la verità didascalica, ma
l'essenza delle cose. Una verità ancora più profonda per certi versi, quasi che
la finzione si faccia carico di dirci ciò che la storia ci ha solamente
sussurrato.
Non si può poi non apprezzare
le modalità con le quali viene rappresentato il momento esatto in cui a Freddie
viene comunicata la diagnosi. C'è quel momento, di assoluta e struggente
bellezza in cui a testa china, cappello con visiera tirato sugli occhi, Freddie
guadagna rapidamente l'uscita da una clinica. Lì, seduto in corridoio trova un
ragazzo, che nella figura smunta e già ferita dalla malattia sembra quasi
rappresentare lo specchio futuro di ciò che sarà lui entro breve tempo. E i due
scambiano una singola battuta. Un “de-oh” con il quale il ragazzo dimostra di
riconoscere Freddie e che rappresenta, con dirompente semplicità, la via da
seguire. L'unica possibile. Cantare. Con tutto se stesso, fino alla fine.
14
La scena del Live Aid, che di
fatto conclude il film, è oltre ogni più ragionevole aspettativa, nonostante
tra fotografie e video avessimo già idea di come è stata ricreata. All'interno
di quello stadio si percepisce tutta la tensione emotiva di chi è tra il
pubblico e di chi attende dietro le quinte l'abbraccio della folla. I Queen
sono in attesa nella loro roulotte, i volti tesi, il timore di fallire
palpabile soprattutto dopo aver svolto delle prove condizionate dallo stato di
salute di Freddie. Ma poi arriva il momento di salire sul palco, il luogo dove
Farrokh Bulsara smette i panni del ragazzo timido in cerca di un sogno da
realizzare e che diventa lui, Freddie Mercury. Ciò che è riuscito a fare Rami
Malek in questa scena è senza precedenti. Riesce ad essere Freddie in tutto,
dalle pose agli ammiccamenti e anche la sincronia è stupefacente con
l'originale, a ulteriore dimostrazione di quanto il lavoro fatto da Bryan
Singer alla regia meriti davvero molta più attenzione di quanto le circostanze
finora non gli abbiano tributato.
L'aspetto più emozionante è
l'interazione tra Freddie e il pubblico e la capacità del film di farci essere
parte di esso. Dentro ci sono tutte le tipiche emozioni che si vivono ad un
concerto dei Queen. Riuscire nell'impresa di filmare con tanta efficacia
aspetti in realtà assai complessi è sbalorditivo. Perché, per quanto uno show
sia sapientemente costruito, c'è una buona dose di spontaneità e
imprevedibilità che non puoi prevedere e che costituisce di fatto gran parte
dell'emozione che può darti la musica dal vivo.
Nel film invece la scena è
stata per forza di cose scritta e realizzata a tavolino, con l'obbligo di
seguire un percorso rigidissimo. I movimenti dei protagonisti potevano essere
quelli e soltanto quelli. Anche minuzie come uno sguardo o una luce non
potevano debordare oltre un certo canovaccio. Eppure in questo schema così
rigido e invalicabile, Rami riesce a restituirci il Freddie più vero e potente
che si sia mai visto al cinema. Ed è questo il motivo per cui guardando
l'esibizione sento crescere nel profondo qualcosa di forte. Un'onda di marea.
Uno tzunami che irrompe, ma senza fare devastazioni, che trascina lontano e mi
spinge in una direzione che non mi sarei mai aspettato di poter intraprendere
ancora una volta.
Succede in un'istante. Non lo
dimenticherò mai. Ci sono io. E con me c'è quel ragazzino che ascoltava gli
album dei Queen e costruiva su quelle canzoni il proprio coraggio di vivere. Lo
osservo mentre ascolta la voce di Freddie e ne ammira le movenze sul palco.
Sorrido quando si entusiasma per un assolo di Brian o per un passaggio ritmico
di Roger e John. Provo una infinita tenerezza quando questo piccolo me stesso
di tanti anni fa torna a casa e scopre che Freddie è morto. Ed è questo che
alla fine capisco attraverso l'atto finale del film. Che mi manca. Che il vuoto
disegnato dal dolore vissuto quel giorno del 1991 ha spezzato qualcosa dentro
di me. Una ferita che con l'età adulta ho creduto si fosse rimarginata e che
invece c'è ancora. La perdita inconsolabile, la nostalgia. Forse addirittura il
risentimento perché lui, proprio lui, mi ha lasciato.
15
Inizio a piangere. Lo farò
finché non saranno terminati i titoli di coda e anche oltre. Piango perché
Freddie è andato via. Piango perché Rami lo ha riportato qui, proprio di fronte
a me. Me lo ha restituito con la potenza evocativa di cui solo il cinema è
capace e che con la complicità della musica ha espresso un'energia ancora più
intensa e vera. E quando alla fine della loro performance, i Queen (oh si,
adesso sono i Queen, non degli attori) si avvicinano al limitare del palco per
salutare il pubblico e Freddie si volta verso la telecamere, proprio verso di
noi, verso di me, ho una vertigine. Sono sullo strapiombo della gioia che si
mescola con la più devastante delle nostalgie. Freddie mi guarda. Osserva tutti
noi e sembra volerci fare spazio per ammirare ciò che ha di fronte, come a
dire: guardate questo pubblico! Osservate la felicità sui loro volti. Lo
abbiamo fatto noi, con la nostra musica. Forse è stato un cammino troppo breve.
Ma dopotutto, ne è valsa la pena, non è vero?
Cosa resta addosso. E cosa nel
cuore. Ho le mie emozioni e forse queste parole non sono state capaci di
raccontarle. E voi, che avete avuto la pazienza di leggere, custodite
gelosamente le vostre. È tutta qui la magia di questo film. È qui che si cela
l'essenza stessa dei Queen e di questa figura maestosa che tutto il mondo
conosce e ama. C'è qualcosa di inesplicabile in questa musica e da oggi anche
sullo schermo illuminato del cinema. Qualcosa che nessuna dissolvenza in nero
potrà mai cancellare del tutto. Una verità che ha trovato il proprio posto
accanto alla fantasia. Come avviene nei sogni. Quelli che però, al risveglio,
restano lì, a gravitarti nell'anima. Ancora una volta, per sempre.