Comprendere la reale personalità di un artista è molto
più complesso di quanto non si creda. L’errore più comune è quello di pensare
che basti interpretare i testi delle canzoni, qualunque cosa voglia dire
“interpretare”. Perché un testo può essere valutato in senso letterale o
analizzato più in profondità. Ma il rischio di andare fuori strada rimane.
Nessuno, salvo i tre Queen rimasti (e una manciata di
amici, Mary Austin compresa), può dire di aver davvero conosciuto Freddie Mercury. La loro esperienza
diretta della sua personalità è qualcosa che va ben oltre ciò che possiamo
intuire leggendo i testi delle sue canzoni. Del resto queste ultime sono una
forma di creatività che, al pari di un testo di narrativa, pur partendo da
un’esperienza personale finiscono inevitabilmente per assumere una dimensione autonoma
che le rende spesso totalmente distaccate dal suo autore.
Chi si è cimentato con la scrittura creativa, sa a cosa
mi riferisco. Potrei scrivere un racconto utilizzando come spunto l’incontro
casuale con un vecchio amico che non vedevo da anni, tuttavia nell’elaborazione
del testo “la storia” prenderà vita e seguirà un proprio percorso e alla fine
ciò che avrò raccontato non sarà necessariamente (o del tutto) quell’incontro
iniziale, ma un’esperienza diversa che nulla (o quasi) ha a che vedere con me e
la mia vicenda personale.
Volendo restare in ambito Queen, il testo di Save Me ad esempio non racconta
un’esperienza vissuta da Brian May che si è limitato a tradurre in musica un
momento di difficoltà vissuto da un amico. Allo stesso modo Play The Game, che pure ha come
presupposto il rapporto burrascoso tra Freddie e Tony Bastin (“stai al gioco”
era un modo per dire all’amante “accetta le mie regole”) alla fine diventa
un’invocazione al lasciarsi andare all’amore, un tema per così dire più
“generico” che consente a chiunque di immedesimarsi nel brano, cosa che al
contrario non potrebbe accadere con una vicenda eccessivamente autobiografica.
Perdonate questa lunga introduzione. Lo scopo è
semplicemente quello di chiarire un aspetto spesso sottovalutato: non possiamo
capire davvero i nostri artisti preferiti, ma solo intuirne alcuni aspetti
mettendo assieme le loro canzoni e quel poco che sappiamo delle loro vite
personali. Conoscere le difficoltà sentimentali patite da Freddie ci permette
di comprendere meglio canzoni come You
Take My Breath Away o It’s A Hard
Life. Ma è pur sempre un esercizio difficoltoso, come lo sono tutte le
forme di interpretazione, non privo dunque di errori di valutazione.
La domanda quindi è la seguente: esiste una canzone dei Queen che possiamo definire come il testamento
musicale di Freddie Mercury?
Probabilmente l'uso del concetto di "testamento" è una forzatura di cui dovremmo liberarci. Non credo che fosse nello spirito di Freddie l'idea di lasciare ai posteri una sorta di resoconto o lascito. Più corretto, credo, andare alla ricerca di una riflessione finale e personale attraverso cui il cantante ha provato a mettere in ordine i pezzi della propria esistenza. Non il bisogno morale per così dire di raccontare qualcosa di sé ma, piuttosto, una fonte di ispirazione che lo ha indotto a indirizzare in quella direzione i suoi ultimi componimenti e le performance in video.
La questione si ripresenta con regolarità quando arrivano
nel corso dell’anno un paio di ricorrenze: quella della pubblicazione di The Show Must Go On e l’ultimo video
girato dalla band, These Are The Days Of
Our Lives.
Solitamente i media tendono a identificare queste due
canzoni come i “testamenti di Freddie”. È abbastanza logico che sia così. I
titoli sono di per sé fin troppo evocativi. In più si tratta di canzoni
registrate poco prima della sua scomparsa e, soprattutto nel caso del video di These
Are The Days Of Our Lives è impossibile non pensare ad una sorta di commiato
con il quale Freddie saluta definitivamente i suoi fan.
Potremmo dire che in qualche modo Freddie ha fatto sue le
canzoni e i significati proposti da Brian e Roger, gli autori principali dei
due brani in questione, riuscendo così ad evitare il rischio di trasformare l’ultima
musica della band in qualcosa di eccessivamente auto-referenziale, un po’ come
invece amava fare di proposito Roger Waters con i Pink Floyd (e che, in quel
caso, fu elemento di definitiva rottura degli equilibri interni della band).
Se voglio proprio parlare di “testamento musicale” di
Freddie, allora dobbiamo per forza di cosa ricercarlo in più canzoni. The Show
Must Go On e These Are The Days Of Our Lives certamente, ma anche Mother Love e a Winter’s Tale che, in modo differente, mettono in scena delle
istantee emotive che descrivono ciò che Freddie ha vissuto negli ultimi mesi
della sua esistenza. Su tutto, la ricerca della pace, rappresentata dai luoghi
in cui amava trascorrere del tempo (Montreux con A Winter’s Tale) o da uno
stato d’animo descritto con quel bisogno atavico di ritornare indietro,
letteralmente nella calda sicurezza del grembo materno.
E poi c’è Was It
All Worth It, che in realtà andrebbe citata con un punto interrogativo
finale. Perché la canzone che chiude The Miracle (almeno nella sua versione in
vinile) è una domanda, quella più importante che ci si pone sempre alla fine di
un cammino: ne è valsa la pena?
Sappiamo che l’autore principale della canzone è proprio
Freddie, ma anche in questo caso gli interventi degli altri componenti della
band non mancano, sia per la struttura musicale che per il testo che, comunque,
resta accreditabile al cantante, almeno secondo le fonti disponibili (forse
qualcosa di più l’apprenderemo con la pubblicazione del box antologico dedicata
all’album, in uscita quest’anno).
Was It All Worth It è dunque una domanda esistenziale, l’atto
finale con il quale Freddie si confronta con il cammino che sa essere giunto
alla fine.
“Cosa
mi è rimasto da fare in questa vita? Ho forse raggiunto ciò che mi ero
prefissato?”.
Inizia così la canzone e l’idea che ne deriva è di essere
al cospetto di un uomo finalmente consapevole di quali siano le domande giuste
da porsi. Probabilmente uno dei risultati più complessi da raggiungere e ancora
più importante delle risposte stesse.
E ancora:
“Sono
un uomo felice o mi sono impantanato nelle sabbie mobili?”
La felicità, lo sappiamo bene, è sempre stata un elemento
sfuggente per Freddie ed è inevitabile che a quel punto della propria esistenza
si sia chiesto se, in definitiva, è riuscito a raggiungerla. La risposta,
ovviamente, dipende dall’aver capito in cosa consiste la vera felicità e questo
è forse il senso stesso della vita.
Freddie va alla ricerca di ciò che può risolvere quei
punti interrogativi, riavvolgendo il nastro della propria esperienza di
musicista e in questo finisce con il coinvolgere gli stessi Queen, tanto che
alla fine il senso di Was It All Worth It smette di essere esclusivamente
personale per diventare la riflessione della band.
“Ora
ascoltate la mia storia” ci dice. “Comprammo una batteria, suonavamo nella scena musicale e ci credevamo
perfetti.”
Eccoli i Queen in tutta la loro proverbiale capacità di
credere in se stessi, di considerarsi i più grandi prima ancora di esserlo.
Questi sono i Queen dei primi giorni, delle corse notturne per registrare una
manciata di canzoni, mentre di giorno macinavano chilometri a bordo di uno
scalcinato pulmino per esibirsi nei pub della Cornovaglia.
“Dare
tutto il mio cuore e la mia anima e restare svegli tutta la notte, ne è valsa
la pena?”
Qui ritroviamo i sacrifici, i dubbi, le paure di un
artista pronto fin da subito a dare tutto se stesso per realizzare il proprio
sogno. Un tema caro non solo a Freddie, ma anche a Brian, Roger e John, che con
lui hanno condiviso ore passate a dormire sul pavimento e i miseri guadagni
ottenuti con i loro primi album.
Poi arriva un altro frammento biografico, quello del
rapporto con la fama:
“Sborsavamo
denaro senza fare calcoli, non importava il risultato. Eravamo viziosi,
affamati e pieni di talento. Servivamo ad uno scopo, come in un fottuto circo.
Eravamo così magnifici e vi amavamo alla follia. Ne è valsa la pena.”
Ecco la prima risposta. Denaro speso senza ritegno per
allestire i loro concerti, il talento messo al servizio della musica ma anche
del business (un vero e proprio circo!), tutto per amore del loro pubblico. Ed è
questo ultimo elemento a spingere Freddie a dire che sì, ne è valsa la pena.
Una risposta che trova conferma anche nei passaggi
successivi della canzone:
“Vivere
respirando rock’n’roll, girare il mondo (rappresentato nel testo da Bali) quasi
fosse un’esperienza trascendentale (il riferimento è a Dio) ma anche surreale
(con quella citazione a Dalì, da intendersi forse anche come passione per la
pittura e l’arte in genere). Si ne è valsa la pena, è stata un’esperienza che
valeva la pena vivere.”
La conclusione, il sigillo alla riflessione dettata da
Was It All Worth It arriva alla fine, con quel “è stata un’esperienza che valeva la pena vivere”, una frase che
sembra pretendere una prosecuzione che nel testo non c’è: “nonostante tutto”, una chiosa che resta sospesa tra le righe e che
sembra il più evidente riferimento alla malattia, alla fine della corsa, alla
chiusura definitiva del cerchio.
Perché è quella la risposta da trovare, la convinzione
che tutto quello che si è fatto nella propria esistenza abbia avuto uno scopo e
che, quindi, ne sia valsa la pena. Freddie alla fine ha trovato quel senso da
dare alle cose, anche alla parte peggiore del proprio destino, che è forse la
forma di felicità più alta che si può raggiungere al termine della propria
esistenza. E lo ha cantato, con una forza incredibile, in uno dei brani più
belli e ingiustamente meno conosciuti dei Queen che, forse, racchiude quel
testamento musicale che tutti ricercano altrove.
E voi che dite, ne è valsa la pena?