È la notte tra il 24 e il 25 Novembre del 1991. Su Londra
sono calati i rigori dell’inverno e la pioggia ha trasformato le strade del
quartiere di Kensington in lunghe lastre scure che riflettono le luci dei
lampioni e delle auto in transito. La mezzanotte è passata da pochi minuti e
una folla composta ha iniziato a radunarsi al n.1 di Logan Place il cui piccolo
portone verde che fa da ingresso è rapidamente scomparso, nascosto da mazzi di
fiori, biglietti, candele e omaggi di ogni sorta. Al di là delle mura di
protezione il silenzio cela il dolore immenso per la perdita di Freddie
Mercury. Il frontman dei Queen non c’è più.
Quello che ho provato a descrivere è il momento esatto in
cui Garden Lodge ha smesso di essere “solo” la casa di Freddie Mercury per
diventare qualcosa di diverso, un luogo di culto dove i fans nel corso degli
anni hanno testimoniato il loro imperituro affetto per il mito, il posto nel
quale sostare almeno per un momento per lasciarsi andare alla commozione e al
ricordo. È il bisogno di assecondare un bisogno ancestrale, oltre che per
manifestare una forma di rispetto. È lo stesso sentimento che ci porta a
visitare la casa di una persona appena scomparsa o la tomba in un cimitero. Lo
sappiamo che si tratta di luoghi irrimediabilmente svuotati della presenza più
importante, lo spirito di chi amavamo, eppure essere lì ci fa sentire meglio,
partecipi del dolore e coinvolti in un moto nostalgico che riempie il cuore e
rinsalda il legame spezzato dalla morte.
Prima di quella tragica notte di Novembre, Garden Lodge era
poco più di una casa citata su qualche rivista e sulle pochissime biografie
dedicate ai Queen in circolazione fino a quel momento. Il suo vastissimo
contenuto fatto di quadri, preziose porcellane, abiti di scena e mobili antichi
non erano ancora incisi nell’immaginario collettivo, salvo le poche
dichiarazioni rilasciate dallo stesso Freddie. La sua naturale ritrosia ad
aprirsi con i giornalisti e a mantenere separate vita privata e dimensione
pubblica hanno impedito a chiunque di entrare anche solo idealmente (oggi
diremmo virtualmente) tra le mura di Garden Lodge, una dimora rimasta per lungo
tempo solo da immaginare e senza attribuirvi il significato assunto nel 1991.
La percezione che il pubblico ha di Garden Lodge è cambiata
quando la vita privata di Freddie Mercury ha iniziato ad essere raccontata in
libri e interviste. Ex amanti, ex assistenti, ex tuttofare, ex amici. Una
pletora di personaggi più o meno credibili, più o meno sinceri, più o meno smaniosi
di partecipare al business nato con la morte di Freddie hanno iniziato a dire
delle cose, a condividere ricordi, a pubblicare fotografie, dettagliando ogni
aspetto di Garden Lodge e della vita che Freddie svolgeva oltre quel portone,
felice di essere celato agli sguardi altrui, felice di essere solamente un uomo
con il suo destino.
Sul valore e sull’opportunità di memoriali, biografie e
dichiarazioni è impossibile dare un giudizio capace di rappresentare il sentire
comune. C’è chi del proprio mito vuole sapere tutto, ma proprio tutto, e c’è
chi si accontenta di godere del suo talento e magari si limita a sostare
davanti a Garden Lodge senza alcuna pretesa di varcarne la soglia anche solo
idealmente, consapevole che tra quelle stanze Freddie ha vissuto momenti di
immensa gioia ma anche altri di immane dolore quando la malattia aveva ormai
preso il sopravvento.
Ma Garden Lodge non è (presto dovremo dire non era) solo la
casa di Freddie. Negli ultimi trent’anni è stata anche la casa di Mary Austin.
È a lei che Freddie ha lasciato tutto, compresa la libertà di disporre di
Garden Lodge e dei suoi oggetti in totale autonomia di pensiero e coscienza. Il
testamento, l’unica certezza a cui possiamo aggrapparci (il resto è un coacervo
di speculazioni, ipotesi, idee personali) racconta di un lascito che non
prevede la costituzione di una fondazione o una destinazione particolare
dell’immobile (ne è prevista una solo in caso di morte prematura di Mary). Si
tratta di un documento per certi versi asettico, scritto con il piglio dell’avvocato
e del commercialista, di chi sa di dover regolare anzitutto gli aspetti
finanziari di ciò che si lascerà dietro. Non c’è una particolare enfasi in
quelle ultime volontà , se non la granitca e sempre confermata volontà di
Freddie di rendere la sua amata Mary erede del suo mondo personale.
La questione a questo punto è provare a capire come debba
essere interpretato un lascito del genere. Dobbiamo chiederci cosa significhi fare
testamento e cosa riceverne i frutti. I desiderata di qualsiasi fan sono ovvi:
ciò che amiamo deve restare immutato e immutabile, cristallizzato nella
perfezione che quella dimensione artistica ci regala ogni volta che ascoltiamo
un disco o rivediamo un concerto alla televisione. È lo stesso meccanismo
psicologico che spesso (troppo spesso!) rende i fans intolleranti ai
cambiamenti dei loro artisti preferiti, addirittura incapaci di accettarne il
decadimento fisico, come se l’avanzare dell’età fosse una colpa e non la
naturale conseguenza dell’appartenenza al genere umano.
Ma uno come Freddie Mercury è un mito, l’icona fattasi uomo
e in quanto tale non può cambiare, così come non possono farlo gli stessi
Queen, ai quali si rimproverano le stempiature, il passo un po’ claudicante, le
dita non più agili come un tempo, tanto che viene da chiedersi se il rispetto
che talvolta è timore reverenziale per i grandi artisti non venga sostituito da
una forma d’odio sottile e strisciante, un’incapacità del pubblico di perdonare
ai propri idoli lo svelamento di una grande e dolorosa verità , che in fondo
anche loro sono esseri umani, con i loro difetti, gli errori, gli acciacchi e le
proverbiali cadute.
Il bisogno di cristallizzare le nostre icone, di renderle
immortali, ci porta a leggere con insistenza ogni pubblicazione, a scandagliare
i dettagli, le indiscrezioni e le dichiarazioni attraverso cui speriamo di
poterci avvicinare un po’ di più all’oggetto della nostra passione, per farne
parte e dirci a nostra volta protagonisti, come sempre più spesso accade in
rete dove sui fili taglienti dei social network riversiamo le nostre opinioni
con la pretesa che siano verbo, grimaldelli con i quali cooptare il pensiero
altrui nel tentativo di uniformarlo alla nostra personale visione. Intendiamoci,
non è sempre così, ma il rischio di sconfinare nel lato peggiore di una
passione è il risvolto di una medaglia altrimenti luminosa.
Così, anno dopo anno, libro dopo libro, intervista dopo
intervista, Garden Lodge ha progressivamente cambiato aspetto. Le sue pareti si
sono fatte sempre più trasparenti e tutti abbiamo iniziato ad immaginare le
scene di vita quotidiana che si svolgevano tra Freddie e il suo entourage. Lo
abbiamo visto seduto al pianoforte, ne abbiamo udito le risate e le
imprecazioni, addirittura siamo riusciti ad entrare nel suo bagno privato
mentre giocava tra le bolle di sapone o si rimirava allo specchio indossando
uno dei suoi amati kimono. Abbiamo potuto letteralmente sbirciare dal buco
della serratura, invadendo una privacy alla quale Freddie ha fatto il possibile
per non rinunciare fino all’ultimo istante di vita.
E poi abbiamo attraversato ogni stanza, riuscendo quasi ad
indovinare l’autore di ogni singolo quadro o il negozio giapponese dove Freddie
ha acquistato porcellane, scatole finemente cesellate e abiti. Purtroppo c’è
stato dato anche accesso alla sua camera da letto, quella in cui ha il dolore
sedeva al suo fianco, momenti che Freddie non avrebbe mai voluto condividere,
non perché se ne vergognasse ma perché quella era la sua battaglia, quello
l’unico palco che sapeva di dover calcare mentre in platea una figura solitaria
vestita di nero attendeva paziente di poter fare la propria entrata in scena.
Per chi non ci avesse mai pensato, Garden Lodge è stata anche questo, un teatro
del dolore, della devastazione fisica, dell’annientamento della dignità , della
costellazione di farmaci messi in fila sul comodino, come sempre accade quando
la malattia diventa la tua compagna di vita.
Freddie a Mary ha lasciato anche questo fardello, che lei
ha conservato immutato per oltre tre decenni. Castello dei sogni, gabbia
dorata, prigione della memoria, regno. Garden Lodge è stata molte cose per Mary,
non tutte necessariamente felici. Poi un giorno, mentre dalla finestra del
salotto osservava il via vai di un trasloco, l’illuminazione: forse potrei
lasciarmi alle spalle tutto questo. Dire addio a Freddie. Che enormità . Eppure
un atto necessario, legittimo, una coraggiosa consapevolezza di chi ha capito
che la morte vince se ti impedisce di vivere, di allontanarti da una tomba su
cui deponi i fiori tutti i giorni o da una casa che non hai mai sentita
veramente tua.
Ma ci sono i fans, quelli che considerano Garden Lodge il
luogo in cui lo spirito immortale di Freddie Mercury abita ancora, talmente
tangibile da suscitare lacrime e il bisogno di incidere il proprio nome su un
pezzo di muro (lo abbiamo fatto tutti, si sa). C’è da chiedersi però se sia la visione
giusta o se, magari, si tratta solo del risultato di una sorta di allucinazione
collettiva indotta da chi di quella casa ha raccontato tante, troppe cose, le
stesse che Freddie non avrebbe mai svelato.
C’è una domanda che mi assilla da tempo: abbiamo davvero
bisogno di Garden Lodge per amare questo artista straordinario? Quanto sono
importanti i luoghi del pellegrinaggio? E che significato dobbiamo attribuire
agli oggetti che gli sono appartenuti? E infine: quanto di tutto questo ha
valore se rapportato alla musica, a quella cosa meravigliosa che possiamo
ascoltare quando vogliamo e che ogni volta ci salva un po’ la vita?
Tante domande, poche le risposte, forse. Proprio per questo sono le più necessarie, le uniche che possono dirci una volta per tutte se Freddie abita ancora in quella via di Londra, dietro quella porta, tra quegli oggetti e le opere d’arte, oppure se il suo spirito è nelle canzoni e nelle performance, le uniche cose che ha deciso di lasciare proprio a noi, non con un testamento ma con un’affermazione divenuta dichiarazione d’intenti, invincibile anche al cospetto della morte: “Non voglio diventare una star, voglio essere una leggenda”.