Tempo fa, ma in realtà dovrei dire parecchio tempo fa, perché è un ricordo che risale a quando ero uno studente universitario fuori sede e così quel “tanto tempo fa” mi riporta in Via del Pratello che, per chi è di Bologna o ci ha vissuto significa alcool, musica fino a tardi e angoli bui sotto i portici dove lasciare le budella a fine serata. Ma ho iniziato subito a divagare pericolosamente. Quindi ricominciamo da capo.
Come vi dicevo ero in Via del Pratello, ficcato a fatica
in uno di quei minuscoli pub dove trascorrevo buona parte delle serate lontano
dai libri di diritto. Ricordo l’atmosfera appesantita dalle sigarette (si poteva
ancora fumare nei locali, roba giurassica per i più giovani di voi) e anche le
lamentele del mio amico per la birra troppo calda. O forse troppo annacquata,
non saprei. E, a volerla dire tutta, non sono nemmeno sicuro fosse un amico.
Molto più probabile che si trattasse di un’amica, sapete com’è.
Il punto comunque non è la birra schifosa e nemmeno il
fatto che mi trovassi lì a condividerla con qualcuno che evidentemente aveva la
pazienza di starmi a sentire, perché all’epoca parlavo quasi esclusivamente dei
Queen, di quanto fossero grandi, inarrivabili e unici e di quanto mi avessero
cambiato la vita. Lo faccio ancora oggi naturalmente, ma credo di essere
riuscito a mitigare quella sorta di ossessione che mi porto dietro fin dal
1986, una di quelle cose che ti si appiccicano addosso e che porti in giro
tutto tronfio, convinto di essere molto più figo per il semplice fatto che ti
piace qualcosa e che di quella cosa sai tutto, ma proprio tutto.
Le ossessioni sono pericolose. Hanno il potere di
concentrare tutte le vostre energie in una singola direzione, una di quelle
cose che alla lunga ho iniziato a detestare, perché se ti fissi su qualcosa,
qualsiasi cosa, finisci col perdere di vista tutto il resto, le altre cose verso
cui potresti provare interesse. E via così, fino a sacrificare tutto per una
stupida ossessione. Anche gli affetti, anche te stesso.
Ma le ossessioni fanno anche stare bene. E a me i Queen
hanno sempre fatto un gran bene, anche quando mi hanno fatto piangere, come il
24 Novembre del 1991 o il 20 Aprile del ’92, per non dire del video di These
Are The Days Of Our Lives, della statua di Freddie a Montreux, di Mother Love,
del ritorno dei Queen “con il più”, di Brian May che mi abbraccia nel backstage
di un concerto a Roma o Rami Malek che sussurra “Ay-Oh” mentre lascia l’ospedale
e un malato di AIDS lo fissa, forse felice di poter condividere una sorte così
terribile con una leggenda come Freddie Mercury.
Però io quel tipo di ossessione (o è una forma di
paranoia?) l’ho superata scoprendo che oltre ai Queen c’è molto altro a cui
dedicarsi e così oggi mi ritrovo anche a scrivere recensioni sui libri che
leggo, perché io senza libri non ci so stare, ho bisogno del profumo della
carta, dello sguardo che cade sulle copertine e che poi si perde nelle trame,
tra i personaggi e le loro avventure, i risvolti, gli epiloghi, il prossimo
romanzo da leggere e commentare, manco fosse un’altra ossessione.
Potete quindi immaginare la mia reazione quando mi
ritrovo tra le mani un libro che oltre ad essere un libro è anche un libro che
parla dei Queen o di Freddie Mercury. È la classica combinazione (combo per i
più giovani) realmente letale, una di quelle cose che mi porta a leggere con un
misto di frenesia e attenzione, per non perdere nemmeno una parola, come
fossero le note che i Queen mettevano nelle loro canzoni e che dovevo conoscere
in ogni possibile sfumatura. Se poi ti rendi conto che il romanzo che hai tra
le mani è anche il racconto dell’ossessione del suo autore (uno dei due, in
realtà ) per Freddie Mercury allora il gioco è fatto, la lettura ti prende
completamente e non vedi l’ora di arrivare alla fine per sapere tutto, quasi
che la storia contenga qualche rivelazione anche sul tuo conto, quel segreto
che tutti noi ossessionati da Freddie custodiamo da qualche parte, talvolta
talmente bene da non saper dire nemmeno in cosa consiste. Però c’è ed è quello
che ci spinge a considerarlo un dio in Terra, esattamente come fa Massimiliano Parente in Volevo Essere Freddie Mercury, scritto
assieme a Giulia Bignami e
pubblicato da La Nave Di Teseo.
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Della trama non vi dirò molto, lo sapete come sono fatto,
non amo rovinarvi le sorprese contenute in un romanzo. Soprattutto non mi
considero un “recensore”, ma solo uno che ama leggere e che si diverte a
condividere ciò che pensa, nutrendo la speranza che le parole che riesce a
mettere assieme possano incuriosire, divertire o magari anche innervosire e
deludere, perché ciò che conta è suscitare qualcosa, almeno un sussulto emotivo.
Ecco, se vogliamo parlare di questo libro, allora consideriamo quello che
riesce a tirare fuori dal lettore, perché si tratta di un mix piuttosto
interessante.
Il primo sentimento potrebbe apparire poco lusinghiero:
la rabbia. In effetti con Massimiliano Parente sono piuttosto incazzato e per
diverse ragioni, la prima è che di suo non ho mai letto nulla, nemmeno sapevo
della sua esistenza. Ma qui siamo nel campo del mea culpa, per cui forse dovrei
essere incavolato più con me stesso. Poi c’è la questione che Volevo Essere Freddie Mercury è stato
annunciato come il suo ultimo romanzo. Ma come, scopro l’esistenza di uno
scrittore innamorato dei Queen come me e quello ha già deciso di averne avuto
abbastanza della penna (o della macchina da scrivere o del tablet figo)? Cosa
ancora più grave, io con Massimiliano ho avuto anche modo di parlarci (per una
mezz’ora al telefono) e la prima cosa che ha fatto è stata confermare che si,
questo è davvero il suo ultimo romanzo, dopodiché stop, fine, caput. E io, che
sono un lettore che agli scrittori ci tiene parecchio (mi dispero ancora per la
dipartita di Arthur Conan Doyle, fate voi) non posso che provare una forma di
risentimento nei suoi confronti, tanto che mentre mi raccontava della sua
visione della vita, dei Queen, di Freddie, di John Deacon, di Dio e del cosmo,
avrei voluti dirgli: “Senti un po’, non rompere e rimettiti subito a scrivere,
perché io gli scrittori che non vogliono più essere tali non li sopporto, mi
sembrano uno spreco immane di energia e bellezza”. E se alla fine non gli ho
detto nulla è solo perché mi ha intrappolato nella sua ossessione per Freddie
Mercury e siamo finiti a parlare solo di quello.
L’idea del romanzo è piuttosto semplice, come lo sono
sempre le scelte definitive: Massimiliano Parente ha deciso che non vuole più
scrivere o forse non sa più farlo come vorrebbe. Ha esaurito la vena creativa,
anzi l’ispirazione (concetto che lui detesta e che quindi io uso di proposito,
che un po’ di quella rabbia la dove pure sfogare da qualche parte) e quindi potrebbe
tranquillamente smettere di esistere perché, come dice lui, se uno scrittore
smette di scrivere (o non sa più farlo) allora cessa anche tutte le sue
funzioni vitali. Restano i libri, ma del loro autore nemmeno la polvere, il che
mi induce a credere che a Massimiliano piacerebbe un sacco una delle frasi più
famose di Stephen King: “E’ la storia, non colui che la racconta”.
La domanda conseguente a questa rinuncia (o
impossibilità ) alla scrittura è fin troppo ovvia: che fare? Sorvolando sulle
soluzioni più audaci, quelle che ti fanno finire in cronaca nera per un paio di
giorni (non uno di più che tanto dopo c’è sempre un altro fattaccio di cui
occuparsi, giusto Massimiliano?) non resta che abbracciare completamente e
risolutamente la propria ossessione che nel caso di Massimiliano Parente è
Freddie Mercury. Non il cantante dei Queen, mica quello, ma il dio Freddie
Mercury, qualcosa di più grande anche della leggenda che alla fine è diventato non
appena la morte ne ha sublimato l’esistenza. Se a questo aggiungete che
Massimiliano è anche un ateo convinto (ma su questo nutro parecchi dubbi perché
anche lui, proprio con questo romanzo, è in cerca di un dio, del suo “personal
Jesus”, per quanto estremamente terreno) capite che il meccanismo su cui ha
costruito il libro, anzi il suo ultimo libro, è piuttosto diverso dalla solita
biografia che magari da fans dei Queen siete convinti di aver acquistato.
Ma io, che sono incazzato con Massimiliano ma di certo
non con voi, vi metto subito sull’avviso: Volevo
Essere Freddie Mercury non è un libro sul cantante dei Queen, ma è un romanzo
in cui Freddie è l’oggetto dell’ossessione dell’autore e quindi, in una forma
assolutamente particolare, è anche il personaggio principale, quello senza il
quale la trama non potrebbe funzionare. E, se si tratta di un’ossessione
salvifica o distruttiva è qualcosa che capirete solo arrivando all’ultima riga.
Il rischio nel dare vita ad un’opera del genere è altissimo.
Mentre lo metti assieme cammini sull’orlo di un abisso ben poco piacevole,
quello di scrivere un resoconto troppo intimo e personale, oserei dire
esistenzialista, in cui ti auto-proclami protagonista della storia, con il
risultato di offrire al pubblico una sbobba incomprensibile, perché sarebbe un
po’ come mettere sul tavolo il nastro infinito del film della tua vita, ma di
quella interiore, che in fin dei conti nemmeno tu conosci davvero e che ti
illudi di saper raccontare e gli altri di essere disposti a provare interesse.
Ma non temete, Parente non è incappato in questo tragico
errore e tra voi e Volevo Essere Freddie
Mercury non è necessario frapporre una distanza siderale. Il merito non è
solamente suo ma anche (direi soprattutto) della co-autrice del libro, Giulia Bignami, creatura dolce,
premurosa, niente affatto disposta ad accettare tutto ciò che proviene dall’amicizia
corrosiva di Parente e, proprio per questo, la migliore amica che gli potesse
capitare in sorte. E qui veniamo all’altro sentimento che mi ha suscitato la
lettura del libro: l’invidia per il rapporto straordinario che scorre tra
Massimiliano e Giulia e che nel romanzo si manifesta attraverso una sorta di
scambio epistolare, un continuo botta e risposta con cui raccontano il proprio
mondo interiore, le rispettive convinzioni, ma anche le debolezze e le
fragilità . Sullo sfondo, naturalmente, sempre lui, il dio in Terra Freddie
Mercury, preso a prestito dai due autori per descrivere gli effetti di
un’ossessione, di una resa e di un tentativo estremo di restare aggrappati alla
creatività , alla vita stessa, rinunciando ad essere se stessi e lasciando che
l’ossessione si sovrascriva sulla propria personalità e sui bisogni, anche
quelli primari.
Mi rendo conto di aver scritto qualcosa di estremamente
criptico per chi non ha ancora letto il libro, il che significa che dovete
leggerlo, non tanto per comprendere il senso delle mie parole (poco importanti)
quanto per addentrarvi nel sofisticato meccanismo narrativo messo in scena da Parente
con la complicità della Bignami. Perché tra le pagine di questo romanzo coesistono
verità e bugie, finzioni narrative e umanissime realtà . Per dirla alla Freddie,
questo è un libro fatto di bianco e di nero, di luci abbaglianti e rivelatrici
e oscurità dense come il petrolio. Ma non solo. Con Volevo Essere Freddie Mercury si ride tanto, perché è anche una
storia tragicomica, abitata da personaggi surreali, situazioni improbabili,
manco fosse un romanzo alla I’m Going Slightly Mad, solo che il tizio con la
teiera in testa siete voi e il fumo vi esce copioso dalle orecchie, un po’ per le
risate, un po’ perché vinti dal tentativo di capire cosa c’è di vero e cosa no
(e di questo tipo di domande i fans dei Queen se ne faranno parecchie).
Volevo
Essere Freddie Mercury è anche un libro profondissimo, intenso
e suggestivo, capace di inchiodare il lettore, obbligandolo ad una riflessione
introspettiva sulla propria condizione personale, sul suo rapporto con la
malattia, la morte, il denaro, l’amicizia, l’amore, il sesso, il bisogno di
essere qualcuno, di conquistare il mondo e, infine, di sfuggirvi per ritrovare
se stessi. Massimiliano Parente e Giulia
Bignami hanno ottenuto ciò che gli scrittori dovrebbero sempre puntare a
fare: scrivere con il bisturi per incidere lo spirito, il cuore e la mente del
lettore, ma senza rinunciare all’intrattenimento, alla voglia di saltellare qua
e là come fossero bambini alle prese con le pozzanghere dopo un temporale
estivo, divertendosi nel raccontare storie magari un po’ folli ma sincere.
Infine, Volevo
Essere Freddie Mercury è anche un romanzo scomodo, urticante, sboccato e
nichilista, una sorta di baccanale alla Living On My Own quando, raggiunta
ormai l’alba, il festeggiato gonfio di alcool e di chissà cos’altro si accascia
esausto sul divanetto in similpelle, fissa il pavimento sporco di vomito,
patatine e pedate e riflette sulla propria esistenza e su quella dell’universo.
Ed è un bene che questo libro non sia per niente accomodante o indulgente e che
tra le sue pagine non ci siano carezze ma ceffoni ben assestati, perché viviamo
tempi bui in cui pensare sembra essere diventato non un lusso ma un’escrescenza
inutile, da guardare con sospetto e da eradicare prima che possa infettarci.
Ecco qual è in definitiva il talento di Massimiliano Parente e Giulia Bignami, ecco il senso più alto
che io vedo in questo romanzo: l’aver creato una messinscena allegra e
fintamente spensierata con cui raccontare qualcosa di complesso e delicato, il
bisogno di ritrovare se stessi quando ci si è smarriti da qualche parte, come
fossimo stelle comete sparate alla velocità della luce nel buio del cosmo.
E poi un piccolo miracolo. Questo libro fa quello che
nessuna biografia finora è stata in grado di fare. Usa Freddie Mercury per
raccontare una storia personale e facendo questo intercetta proprio
quell’umanità che Freddie ha sempre nascosto tra le pieghe del personaggio che
ha creato e di cui è stato in qualche modo vittima. Nessuno ha mai conosciuto
Freddie, se non quelle poche persone che gli sono state davvero vicine e che
hanno scelto di non dire nulla o di raccontare solo la superfice sfavillante a
cui lui stesso si è sempre attenuto.
Nessuno potrà mai scrivere una biografia capace di dirci
davvero chi era questo dio in Terra, a meno che non si scelga una strada
differenze e obliqua, quella che porta alla ricerca del proprio io attraverso un’ossessione,
quella per una leggenda nella quale vorresti trasformarti, salvo poi scoprire
che in sorte ti è capitato un destino diverso, quello di essere semplicemente
te stesso, nutrendo la speranza che alla fine arrivi la risposta a quella
domanda che ti ossessiona da sempre: è tutto vero? O è solamente fantasia?
A noi lettori invece resta la certezza di aver
attraversato i pensieri, estremi e proprio per questo ancora più autentici, di
due scrittori che hanno scelto di mettersi a nudo, ma senza rinunciare del
tutto a quei costumi che Freddie si divertiva a sfoggiare, perché in fondo
indossiamo tutti delle maschere, passiamo la vita a volercene liberare e appena
ci riusciamo ne sentiamo subito la mancanza. Così ci mettiamo a scrivere,
inventiamo storie, celiamo qua e là un po’ delle nostre verità e lasciamo che
il risultato finisca tra le mani di chi quelle dolci ossessioni le conosce fin
troppo bene e non trova poi così strano passare davanti a un specchio, fermarsi
un istante e con il pugno verso il soffitto intonare un appagante “Ay-Oh”.
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