Recensione: Live Around The World dei Queen + Adam Lambert



Raccontare Live Around The World, il primo album dal vivo dei Queen + Adam Lambert è una faccenda un po’ più complessa del solito. Il fatto è che bisogno sgombrare il tavolo da un po’ di scorie, dagli oggetti inutili e anche da buona parte della storia dei Queen stessi.


Facile a dirsi, decisamente meno agevole l’applicazione pratica. Come si fa a separare la storia della band, quella canonica conclusa nel 1991 (o nel 1995, se preferite) dal percorso attuale intrapreso a nome Queen + Adam Lambert? Le connessioni sono tali e tante da rendere quasi impossibile una valutazione separata delle due cose. Del resto, se c’è il nome Queen, se sul palco ci sono Brian May e Roger Taylor e le canzoni sono proprio quelle che conosciamo e amiamo, perché distinguere il prima dal dopo, ciò che è stato fino al 1991 da quanto accaduto in seguito?

A ben vedere un motivo c’è. No, non è quello a cui state pensando. Non c’entrano la fuoriuscita dalla band di John Deacon e nemmeno la scomparsa di Freddie Mercury. Certo, sono circostanze imprescindibili per “giudicare” ciò che sono e fanno oggi i Queen. Eppure non sono quelle buone ragioni da cui partire per raccontare un disco come Live Around The World. Ciononostante è bene ribadirlo fin da subito: il passato dei Queen non potrà mai essere eguagliato dal presente. È un dato di fatto, cristallizzato nelle coscienze di tutti e nella storia stessa della band, potremmo dire nella Storia della musica se consideriamo l’importanza che i Queen hanno avuto al di là del perimetro della propria fan-base.

Eppure da quel background bisogna per un momento avere la capacità di allontanarsi, per mantenere salda la rotta verso una valutazione che tenga conto del presente (pur radicato nel passato), per restare – in definitiva - onesti nei confronti di ciò che fanno oggi e impedire che l’eterno confronto diventi una sorta di invalicabile muro al di là del quale è impossibile anche solo intravedere qualcosa, buono o cattivo che sia.

Intendiamoci, i paragoni tra presente e passato è l’eterno dilemma che alimenta qualsiasi dibattito e che nella maggior parte dei casi rappresenta l’autentico cruccio di ogni artista. Lo patiscono personaggi del calibro di Steven Spielberg, attori di fama o anche scrittori del calibro di Stephen King. È un meccanismo inevitabile ma che in qualche modo va almeno limitato quando non è possibile disattivarlo del tutto.

Con Live Around The World i QAL si presentano sul mercato dopo otto anni di ininterrotta corsa su e giù per il mondo. Tra concerti indoor, eventi speciali all’aperto e festival musicali, hanno collezionato qualcosa come circa 200 spettacoli, quasi tutti andati sold-out e caratterizzati da un crescente interesse da parte di pubblico e critica, entrambe per una volta sufficientemente concordi nel ritenere il sodalizio come riuscito. Una bella differenza rispetto a quanto accaduto pochi anni fa con Paul Rodgers, pur trattandosi di un cantante dalla storia artistica solida e iscritta nella categoria dei grandi. Ma certe cose vanno così, funzionano oppure no e capirne le ragioni non è mai così semplice come si vorrebbe.

Già, forse per valutare correttamente Live Around The World è questa la prima domanda da farsi: perché i QAL sul palco funzionano così bene? Credo dipenda da diversi fattori, a cominciare dall’amalgama raggiunta tra i protagonisti, che ha conferito al sound qualcosa di più unitario di quanto ci si potrebbe legittimamente aspettare da una collaborazione estemporanea. È qualcosa che cogli subito ascoltando questo album, con quella sensazione evidente fin dalle prime note di essere al cospetto di una band in cui ogni elemento svolge il proprio compito in armonia con tutti gli altri. E questo è un merito che va ascritto a tutti, anche a Spike Edney e soprattutto a Neil Fairclough e Tyler Warren, con quest’ultimo che ha pure introdotto uno stile vocale perfetto per buona parte delle canzoni proposte.

La musica è l’altro elemento determinante, con una varietà di brani nettamente superiore a quella proposta con Paul Rodgers, pur non riuscendo ancora a soddisfare appieno i fan alla ricerca di quei “deep cuts” che tanto gioverebbero a delle setlist eternamente bloccate sulle grandi hits. In verità qualche tentativo è stato fatto, ma l’accoglienza da parte del pubblico non è sempre stata entusiasta, segno che ai concerti dei QAL partecipa un pubblico più generalista, affezionato ai grandi classici e che mostra un certo disagio di fronte a cose che, seppur splendidamente eseguite come Spread Your Wings o Machines, non riescono a fare davvero breccia.

Nonostante questa sorta di continuo rimando ai Greatest Hits, in Live Around The World non mancano per fortuna un paio di episodi più di nicchia come Love Kills - The Ballad e I Was Born To Love You (nella versione da Made In Heaven) che suonano senz’altro convincenti, soprattutto grazie all’interpretazione di Adam Lambert, che in molti casi sembra aver trovato la definitiva e giusta misura nel modo di cantare.

Adam Lambert in effetti in questi anni si è evoluto, affinando le proprie doti e limando gli eccessi che, soprattutto all’inizio, ne caratterizzavano lo stile vocale. È innegabile che gli eccessi nei gorgheggi, nelle evoluzioni canore, nel bisogno quasi ossessivo di mettere in mostra la propria estensione vocale finivano con l’apparire fuori contesto, distraendo l’ascoltatore e, in alcuni casi, annoiandolo. Del resto, un vecchio adagio recita che “il troppo stroppia”. Ben venga dunque questo cambiamento, assai evidente nelle registrazioni più recenti inserite in Live Around The World, che mettono la voce di Adam su un piano di maggiore coesione con il resto degli strumenti e anche di più intensa coerenza con lo stile che quelle canzoni pretendono. Ne deriva peraltro la possibilità di apprezzarne ancora meglio lo straordinario talento, forse la vera grande sorpresa del disco che finalmente ne mette in luce tutte le qualità.

Come detto, la tracklist di Live Around The World è pericolosamente vicina a quella di un Greatest Hits, con una serie impressionante di mancanze, il che sottolinea per l’ennesima volta quanto sia vasto e straordinario il repertorio da cui i Queen possono attingere. E non sarebbe stato male nemmeno inserire almeno un paio di brani appartenenti alla carriera solista di Adam che, in versione Queen, hanno assunto uno spessore degno di nota. Ma l’evidente intenzione di pubblicare quasi un “instant-album” ha determinato tagli e scelte magari poco condivisibili ma comunque inevitabili. Ci sarà modo in futuro di rimediare.

L’album si apre con Tear It Up, non il pezzo più famoso con cui presentarsi a un pubblico generalista, ma la cui efficacia è indubbia. Ritmo sincopato che rende perfettamente l’idea di un intro durante il quale, tra luci, fumo e laser, la band svela al pubblico quanto sta per accadere sul palco. A seguire, l’immediata immersione nel passato di Now I’m Here, che non può più essere suonata con l’energia di un tempo (i limiti, va detto, sono soprattutto di Roger Taylor) ma che gode comunque di una sua dignità anche in questa dimensione più lenta.

Another One Bites The Dust è una terza traccia di ottima fattura, merito soprattutto di Neil Fairclough e del suo basso preciso, potente, mai sopra le righe e più che rispettoso di quanto fatto in origine da John Deacon. Per certi versi è Neil il vero "sostituto" di questa avventura, ma merita davvero di stare lì e di creare assieme a Roger e Tyler una sezione ritmica che funziona egregiamente.

Con Fat Bottomed Girls si entra nel campo di una scelta che è tutta di Brian May. Il chitarrista non ha mai veramente accettato lo scarso successo ottenuto dal pezzo nel 1978 e lo ripropone praticamente sempre da quando la storia dei Queen ha ripreso a correre. In questo caso una performance che andrebbe più vista che ascoltata (per fortuna è stato rilasciato anche il video) grazie alla presenza sul palco delle Dallas Cowboys Cheerleader che, oltre che bellissime, sono davvero brave in quel che fanno. E poi sono bellissime, ma questo lo abbiamo già detto, no!?

Don’t Stop Me Now mette subito in mostra la voce di Adam, perfettamente a suo agio con un pezzo dinamico che richiede anche una certa dose di interazione con il pubblico, felice di farsi sospingere da una canzone che, dice la scienza, è la più adatta per ritrovare il buonumore (di quello in un disco come questo se ne trova davvero tanto). Lo stesso accade anche con I Want To Break Free e soprattutto con Somebody To Love, qui proposta in una versione un po’ diversa dallo standard originale, con una coda finale che abbiamo imparato a conoscere con i Queen Extravaganza. Il brano del 1976 rappresenta anche un inevitabile paragone con il passato (lo so, si era detto di non farlo) e, sebbene le versioni di Montreal e Bowl siano nella stratosfera rispetto a quella dei QAL, resta un pezzo sempre bello da ascoltare, coinvolgente al punto giusto.

Come detto, Love Kills e I Was Born To Love You sono le vere sorprese dell’album. Soprattutto la prima che rivela tutto il talento di Adam nel saper interpretare il mood del pezzo. È probabilmente il suo vertice tra tutte le cose proposte nel disco, assieme a Who Wants To Live Forever. Nel mezzo trova spazio il duetto con Roger Taylor per Under Pressure, altro momento immancabile di ogni concerto che tuttavia (almeno nella versione inserita nell'album) mette in risalto più la voce di Adam che non quella di Roger.

The Show Must Go On è forse una delle canzoni più difficili da cantare, anche se i tentativi di interpretarla non sono mancati. Eppure l’originale non può essere superato. C’è sempre qualcosa che non torna quando la si ascolta, come se gli ingranaggi che ne governano l’esecuzione non riescano mai a trovare la giusta intensità, il numero corretto di giri. È cantata e suonata benissimo in questo disco, non c’è che dire, ma non riesco ad apprezzarla mai davvero fino in fondo quando è suonata dal vivo.

Infine c’è Love Of My Life, momento in cui il pubblico diventa assoluto protagonista e si fa accompagnare nel canto, prima dalla voce come sempre esile di Brian May e poi da quella di Freddie, non più ombra ingombrante ma presenza luminosa che, in qualche modo, giustifica tutto quanto è accaduto sul palco in questi anni.

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E poi si apre un momento di Live Around The World completamente diverso, con la riproposizione del set del Live Aid che i QAL hanno suonato a Sydney in occasione dell’evento creato per sostenere il paese in difficoltà con gli incendi che un anno fa uccisero persone e animali e distrussero chilometri su chilometri di vegetazione.

È un set che suona tiratissimo, carico di energia e con il pubblico grande protagonista su ogni canzone. La band è in forma, non sbaglia nulla e regala emozioni senza sosta, seguendo proprio lo spirito che fu alla base del successo clamoroso del 1985. Naturalmente qui il contesto è diverso e anche il sound risente inevitabilmente degli anni che nel frattempo sono passati (oltre che dei differenti interpreti), ma su quel palco i QAL hanno davvero dato prova di appartenere ad una categoria di musicisti nettamente superiore alla maggior parte delle band attualmente in circolazione, con il grande vantaggio di poter proporre un catalogo di canzoni che continuano ad essere bellissime nonostante siano vecchie di 30 e più anni.

Ed è forse questo il talento più grande che va riconosciuto ai QAL e a Live Around The World, quello di riuscire a raccontare nel presente una storia che poteva anche restare impigliata nel passato, relegata ad una memoria collettiva ma comunque di pochi. Del resto basta guardarsi attorno durante i loro concerti per rendersi conto di quanto la musica dei Queen sia connotata da una trasversalità generazionale davvero unica. Merito di quanto fatto fino al 1991 certo, merito anche dell’immagine iconica cucita addosso a Freddie Mercury e del film che ne celebra l’esistenza. Ma c’è tanto da attribuire anche ai Queen+ e, dunque, a Brian May e Roger Taylor.

Entrambi hanno fatto una scelta in bilico tra nostalgia e voglia di andare avanti. Forse Live Around The World certifica una certa propensione a voler restare in un perimetro di sicurezza, eternamente vincolati alle grandi hits che tutti conoscono e sanno cantare in coro. D’altra parte imbarcarsi in infiniti tour con indosso quel nome così “pesante” è un rischio che solo i grandi musicisti sono in grado di affrontare.

Soprattutto c’è in quello che fanno oggi, e quindi anche in questo disco, una sorta di rivendicazione del proprio ruolo nella storia, come a voler contrastare quell’idea irritante secondo cui i Queen erano la band “di” e non “con” Freddie Mercury. Una percezione popolare, introiettata anche da una certa stampa che raramente ha saputo raccontare i Queen come band, preferendo cogliere il ben più semplice effetto “Mercury” per rilanciare storie più o meno reali, decontestualizzate, talvolta paradossali.

Con Live Around The World si ha invece l’opportunità di ascoltare musica vera con una chitarra graffiante e potente e una batteria che, se pure rallentata dall’età del suo padrone, riesce ancora a far tremare arene e stadi. Le tracce dell’album compongono un organismo palpitante, fatto di muscoli in tensione, di cuore forte e sincero e di una compattezza difficile da eguagliare senza l’ausilio di computer opportunamente settati.

Non dovrebbe sorprendere che sia così, stiamo parlando di quel nucleo sonoro che Freddie Mercury iniziò a bramare ancora prima che i Queen prendessero forma reale e concreta. Non riconoscerlo significherebbe rinnegare la storia stessa della band. La stessa che, secondo una diversa declinazione, viene raccontata in un disco che merita di stare sul vostro scaffale preferito, quello dedicato alla lettera Q.

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