Inutile negarlo, le librerie sono ormai assediate da un
gran numero di biografie che provano a raccontare vita e opere di tantissimi
artisti. Dopo il 1991 e ancora di più dopo l’uscita, ormai due anni fa, di
Bohemian Rhapsody, quelle dedicate ai Queen e a Freddie Mercury in particolare
sono diventate un appuntamento fisso dell’editoria italiana e straniera.
La band e Freddie sono stati raccontati da una
moltitudine di penne, spesso assai diversissime tra loro. Ci sono i compendi che
provano a mettere in fila, album dopo album, canzone dopo canzone, tutto ciò
che è stato prodotto fin qui. E ci sono biografie che, in maniera più o meno
accurata e attendibile, cercano di raccontare quell’autentico mistero umano che
è stato Freddie Mercury.
Perché a ben vedere raccontare Freddie significa anche
esplorare un enigma, soprattutto umano, oltre che artistico. Le difficoltà sono
legate alla carenza di notizie sulla sua adolescenza, un periodo cruciale e
determinante non solo per il giovane Farrokh, e alla circostanza - spesso
sottovalutata - che Freddie ha quasi sempre interpretato un personaggio, anche
e soprattutto nelle interviste rilasciate nel corso della sua carriera. Il
risultato è l’impossibilità di avere un quadro chiaro e realmente attendibile
di quale fosse, per così dire, il “Freddie pensiero”.
E poi non si può tralasciare l’esistenza di tre entitÃ
differenti: Farrokh, il ragazzino vissuto tra Zanzibar e Bombay, con il suo
retaggio culturale particolarissimo e la voglia di guardare oltre i confini
seppur dorati della propria condizione; Freddie Mercury, il dominatore delle
folle, il cantante straordinario e l’autore di canzoni leggendarie; e Freddie,
l’uomo solitario, distante da tutti nonostante fosse sempre circondato da una
miriade di amici, amanti, lacchè, giunto alla consapevolezza di dover
percorrere la parte finale della propria esistenza troppo presto, mano nella
mano con lo spettro della morte giunto a pretendere la propria mercé.
Se sono questi i presupposti, e io credo che lo siano,
avere una biografia realmente esaustiva su Freddie è qualcosa che forse solo
Mary Austin potrebbe scrivere, sebbene anche in questo caso finirebbe con l’essere
una visione di parte, come del resto è stato anche il libro di Jim Hutton.
Paolo Borgognone deve aver avuto queste stesse
consapevolezze quando ha deciso di proporre il proprio personale omaggio a
questa figura gigantesca, attraverso un libro che pur essendo dedicato, tanto
nel titolo quanto nell’immagine di copertina, al solo Freddie Mercury, è di
fatto anche un libro sui Queen. Una congiunzione inevitabile perché Freddie ha
identificato se stesso soprattutto nella musica, rendendo i Queen il
palcoscenico sul quale giocare, raccontare, mettere in mostra alcuni lati di
sé, certamente quelli più significativi, e celarne altri.
Il libro in questione, dunque, è da intendersi come una
biografia su Freddie ma, allo stesso tempo, anche come un libro che racconta i
Queen, anno dopo anno, focalizzandosi sui grandi successi, ma anche sulle
difficoltà , le crisi, i momenti meno felici contrapposti agli enormi trionfi
ottenuti in vent’anni di attività .
Il racconto inizia da Zanzibar e non potrebbe essere
altrimenti, non solo perché questa è una biografia su Freddie. Del resto, se
quel seme esotico chiamato Farrokh non fosse germogliato fino a esplodere in un
caleidoscopio di colori (e note!), nemmeno i Queen avrebbero mai potuto vedere
la luce (ma da fan della band, sento di poter dire lo stesso per le storie
degli altri tre componenti).
Da quei primi anni di cui, come detto, sappiamo bene
poco, Borgognone ci accompagna attraverso le prime esperienze di Freddie nel
mondo della musica, ancora in forma amatoriale, fino all’incontro con i suoi
compagni di avventura. Ma non solo, perché nel libro grande rilevanza hanno anche figure come quelle di Mary Austin e Jim Hutton, senza dimenticare Peter
Freestone e Peter Straker e tutta quella serie di amici e amanti che, seppur di
passaggio, hanno in qualche modo segnato le esperienze di Freddie, come uomo
prima ancora che come artista.
La scrittura è scorrevole e lo stile adottato da Paolo
Borgognone non è quello del giornalista che si assume l’onere di raccontare
ogni singola canzone, ogni concerto, sebbene anche questi elementi trovino
spazio, con l’analisi dei brani più classici e degli eventi live più
significativi. Il libro è, piuttosto, la narrazione pura e semplice dei fatti,
una scelta apprezzabile soprattutto perché una biografia deve essere per sua
natura un racconto circostanziato e non la navigazione a vista di chi prova ad
interpretare piuttosto che descrivere.
Una narrazione fluida dunque, che per ogni capitolo
racconta ciò che Freddie, da solo o con i Queen, ha realizzato, mettendo in
luce la netta differenza tra gli anni ’70 e la decade successiva. La prima,
spiega l’autore, assai incentrata sugli sforzi di raggiungere e poi mantenere
il successo discografico. La seconda più orientata alla individuazione di spazi
personali da parte di tutti e quattro i componenti della band, con un Freddie
votato alla costante ricerca di una sensualità che ha finito col soffocarne i
sentimenti, almeno fino all’arrivo nella sua esistenza di Jim Hutton.
Ma nessun episodio più strettamente personale è
raccontato attraverso il buco della serratura. C’è sempre un grande rispetto da
parte di Borgognone che pure potrebbe attingere a piene mani da biografie ben
più orientate allo sguardo insistito nel torbido. Anche il libro che raccoglie le dichiarazioni di Jim
Hutton è usato come fonte bibliografica con estrema parsimonia, quasi a voler
mantenere anche il lettore sulla soglia di Garden Lodge, secondo un principio
di estremo rispetto per Freddie e la sua privacy.
Va anche riconosciuta la presenta di alcuni inciampi, errori
facilmente superabili durante la lettura (ad esempio il nome di John attribuito a Taylor
in un paio di passaggi e Teo Torriatte accreditata a Freddie invece che a
Brian), che possono forse far storcere il naso, ma che non credo danneggino
eccessivamente l’impianto generale del libro.
Anche esteticamente l’edizione proposta da Diarkos è
davvero bella, con un formato compatto, non eccessivamente grande come capita
sempre più spesso di vedere in libreria, e una copertina morbida dotata di
risvolti che le conferiscono robustezza ed eleganza. Il lettering, così come la
carta, sono di qualità e rendono la lettura gradevole, sia per gli occhi che
per il tatto quando si scorrono le pagine, aspetti questi ultimi che talvolta
vengono trascurati ma che per me assumono una certa rilevanza per convincermi
ad acquistare un libro.
A chi andrebbe consigliato Freddie Mercury The Show Must
Go On di Paolo Borgognone? Indubbiamente ai nuovi fan, quelli che da poco tempo
hanno iniziato a scoprire la musica dei Queen e sono alla ricerca di un testo
che dia loro una visione d’insieme di ciò che ha fatto la band, ma anche di chi
è stato (ed è ancora oggi) Freddie Mercury, non solo come cantante e autore di
canzoni ma anche come icona (pop) contemporanea. In più il libro può
rappresentare una sorta di “guida all’ascolto”, una buona scusa per andare a
(ri)scoprire le canzoni, i concerti, gli album.
Ai fan più navigati, quelli che hanno già affrontato
libri come questo, dico che leggerlo può forse non offrire nuove prospettive,
ma può comunque essere considerata una lettura piacevole, merito soprattutto
dello stile dell’autore e della storia in sé, sempre affascinante quando i
protagonisti sono Freddie Mercury e i Queen.