Recensione: Freddie Mercury - Time Waits For No One





Non è un vero e proprio inedito (ma lo sapevamo già), nonostante buona parte della stampa lo abbia presentato come tale e continui a farlo anche oggi. È, piuttosto, una versione “in purezza” di Time, canzone nota già dal 1986, data di uscita del relativo singolo per l’omonimo musical di Dave Clark. Eppure Time Waits For No One ci offre ancora una volta l’opportunità di emozionarci con la voce di Freddie Mercury e di restare sbalorditi per la sua interpretazione.


Provate ad ascoltarla e a immaginare la scena (anche se magari le cose non sono andate proprio così). Gli Abbey Road Studios sono stati prenotati da tempo per ospitare Dave Clark, Mike Moran e soprattutto Freddie Mercury. L’idea è quella di incidere la versione definitiva di Time, il brano più rappresentativo della colonna sonora del musical prodotto dallo stesso Clark. In sala ci sono solamente i tre artisti e un paio di tecnici. È pomeriggio inoltrato e Freddie arriva in Studio di buon umore. Il 1986 si sta rivelando un anno al di sopra di ogni aspettativa. Dopo l’esperienza del Live Aid e del suo primo album solista, Freddie ha ritrovato i Queen e con essi la voglia di fare nuova musica, di andare in tour, di mettere in cantiere tutti i progetti rimasti fino ad ora solo sulla carta. E poi Time gli piace, adora l’atmosfera del teatro e del musical e tra lui e Dave e Mike si è sviluppata una grande amicizia. Con loro potrebbe anche fare altre cose in futuro.

Gli Abbey Road Studios accolgono Freddie separandolo rapidamente dai rumori della strada. Il caos di Londra si spegne in un attimo non appena varca lo stretto portone e gli unici suoni provengono dalla sala di registrazione dove Mike Moran sta già provando alcuni accordi al pianoforte. Al centro, circondato da un alone di luce c’è il microfono, mentre attorno una debole oscurità serve a garantire al cantante la giusta dose di intimità. Al di là del vetro che separa la sala dalla consolle, Dave Clark ha già preso posto e sta armeggiando con i cursori dei vari volumi. Oggi non c’è da fare un lavoro complicato. Vuole solo che Freddie si metta davanti al microfono a cantare il testo a cui hanno lavorato. Ci sarà tempo poi per tutte le sovraincisioni e per aggiungere gli strumenti.

“Quando vuoi Fred, qui siamo pronti”. Dave indica all’amico che possono iniziare. Freddie risponde con un gesto rapido della mano e qualche gorgheggio, giusto per scaldare la voce. Sistema il leggio su cui è stato sistemato il testo di Time, fa un paio di saltelli, come gli capita di fare appena prima di salire sul palco e poi da il via. Mike Moran posa le dita agili sul pianoforte. Indossa un paio di cuffie ed è concentrato sulle note da eseguire. Non vuole sbagliare nulla, nonostante ci sia tutto il tempo di rifare da capo ogni cosa. Ma c’è qualcosa nell’aria, una sorta di magia che se ne sta sospesa in attesa di manifestarsi sottoforma di musica. Mike inizia a suonare, Freddie si concentra, Dave Clark controlla che gli equalizzatori restino nei limiti stabili. E poi accade.

Accade che Freddie inizia a cantare e quella specie di magia che tutti avvertono prende improvvisamente vita, come una stella che appare sullo schermo nero del cielo e inizia a pulsare, diventando sempre più grande. E poi gira su se stessa, spandendo attorno vibrazioni e colori. La voce di Freddie cresce di tono attraverso il microfono in una serie infinita di gradazioni. Sa essere delicata come seta, ma anche potente, perfetta nelle note più basse come in quelle più alte. Ogni parola del testo è scandita perfettamente, cesellata e incastonata nel contesto più ampio del brano. Ascoltarlo è come viaggiare attraverso una strada fatta di note e colori. La voce percorre curve e crinali, si inerpica e sprofonda laddove è necessario, disegna istante dopo istante ogni forma possibile di melodia. Freddie canta, interpreta, racconta dei sentimenti, fa vibrare i cuori di chi lo ascolta, si esibisce in note difficilissime con la stessa naturalezza con cui i cigni di Montreux sfiorano appena la superficie del lago prima di ritornare in quota.

Mike Moran continua a suonare il pianoforte, trascinato dalla voce di Freddie, che gli indica la via giusta, il modo migliori con cui sottolineare i vari momenti della canzone. Da parte sua Dave Clark è sgomento. Ha scritto una canzone sul tempo e sulla ferocia che questo esercita sulle vite delle persone. Eppure adesso, in questo preciso momento, mentre Freddie la sta cantando, il tempo si è fermato. Tutti gli orologi sono fermi, anche i nostri, mentre Time Waits For No One ci fa venire la pelle d’oca, ci fa piangere e sognare. Soprattutto ci restituisce Freddie, ci concede l’opportunità di averlo ancora qui con noi in tutta la sua vitalità. Il brano dura poco più di tre minuti e quando l’ultimo accordo suonato al pianoforte ne annuncia la conclusione, vogliamo risentirla ancora e ancora. Non ne abbiamo mai abbastanza della voce di Freddie.

È vero, non è una canzone nuova. Non abbiamo nulla da imparare dal testo, sappiamo già tutto. Eppure l’incanto non è inferiore a quello che potevamo provare se si fosse trattato di una brano completamente inedito. Dave Clark ci ha regalato un nuovo punto di vista, ci ha fatto tornare in un luogo che conoscevamo già per farcene ammirare  le bellezze da una prospettiva inedita e sorprendente. Una voce e un pianoforte. Talvolta basta così poco per fermare il tempo ed essere, almeno per una manciata di minuti, parte di un momento di immortale bellezza assieme a lui, al nostro Freddie Mercury.