Con la data di Birmingham dello scorso 16 Dicembre
si è concluso, almeno per quest’anno, il tour dei Queen + Adam Lambert. È stata
una corsa davvero lunga, che a Novembre ha raggiunto anche l’Italia con l’emozionante
concerto alla Unipol Arena di Bologna. In attesa che la band riparta a Febbraio
con le date già fissate in Nuova Zelanda e Australia, è tempo di fare un
bilancio di questa ennesima incarnazione dei Queen assieme ad Adam Lambert.
C’è un primo dato davvero interessante emerso in
questi mesi e confermato dalle tante recensioni ed opinioni, sia giornalistiche
che di semplici fan come il sottoscritto. I Q+AL sembrano essersi finalmente
liberati dei paragoni con il passato. Il merito è dello show, allestito per
dare risalto ai 40 anni di News Of The World, ma che ha perso quegli elementi
di nostalgia che avevano caratterizzato i precedenti tour, soprattutto quelli
che avevano visto Paul Rodgers affiancare Brian May e Roger Taylor.
Scelte come il far cantare Bohemian Rhapsody al solo
Adam, invece che usare eccessivamente i nastri originali con la voce di
Freddie, e la presenza di quest’ultimo legata al momento finale di Love Of My
Life sono risultate, alla lunga, delle mosse vincenti. Naturalmente la presenza
di Freddie Mercury è qualcosa di palpabile in ogni momento dello show. Del resto
tutte le canzoni proposte nel tour sono indissolubilmente legate a lui, così
come gli elementi scenici, che non fanno che richiamare in ogni caso il
glorioso e indimenticabile passato.
Tuttavia stavolta si è avvertita la netta sensazione
che la band abbia voluto fare un passo in più verso la costruzione di una
propria identità , mai davvero slegata dal passato, eppure profondamente
radicata in un presente che Brian e Roger dimostrano di voler vivere fino in
fondo. Detto in altri termini, i due musicisti si sono ripresi una volta per
tutte ciò che gli appartiene di diritto: la band che hanno contribuito a creare
e a rendere immortale.
Molti storceranno il naso di fronte a questa
visione. Ma non c’è da temere. I Queen sono e resteranno per sempre quelli che
abbiamo conosciuto fino al 1991. Semplicemente oggi c’è una storia diversa che
vale la pena vivere. Se lo meritano Brian e Roger e dopotutto lo meritiamo noi
fan, mai del tutto rassegnati all’idea che la storia della nostra band preferita
fosse davvero terminata.
E, a proposito di meriti, non possiamo che tributare
sincere lodi ad Adam Lambert. Nel corso di questi anni ha imparato a limare
quelle caratteristiche che lo rendevano troppo distante da ciò che le canzoni
dei Queen hanno bisogno per essere proposte al meglio. Mi riferisco soprattutto
al suo modo di cantare, un tempo troppo orientato al bisogno di stupire. Oggi,
e più che mai nel tour appena concluso, Adam ha preso maggiore confidenza con
il palco ma anche (e soprattutto!) con il pubblico, limando i suoi eccessi
vocali. In un certo senso si potrebbe dire che Adam ha imparato a cantare senza
strafare.
Allo stesso tempo è rimasto fedele a se stesso. Non ha
rinunciato agli abiti sgargianti (e spesso kitsch, inutile negarlo) e alle pose
esplicite che lo hanno reso una vera e propria icona gay. Di fatto ha portato
in scena il proprio spettacolo, inserendolo sempre meglio in un contesto ben
più grande e riuscendo ad essere credibile anche per chi nutriva i più ferrei
dubbi. Perché se c’è un risultato che lui e i Queen hanno raggiunto in questo
tour è l’assoluta credibilità . I Q+AL funzionano come band. E, proprio per
questo, continuo a nutrire il convincimento che il passo successivo, quello di
entrare in studio “per vedere che succede” andrebbe fatto.
Ciò anche per dare nuova linfa ad uno spettacolo
che, al netto di un palco e di un impianto luci ai limiti dell’incredibile (le
animazioni del robot Frank resteranno indelebili nella memoria di tutti),
rischia col passare del tempo di perdere linfa vitale.
Perché, paradossalmente, è proprio la musica l’aspetto
più debole del meccanismo creato dai Q+AL. Sebbene Brian e Roger siano ancora
due musicisti in grado di “far mangiare la polvere” a buona parte dei propri
colleghi giovani e meno giovani (è incredibile come riescano ad essere ancora
quel mix inarrivabile di potenza ed eleganza), e al netto dell’indiscutibile
bravura di Adam e anche di Neil Fairclough al basso, Tyler Warren alle percussioni
e del sempre prezioso Spike Edney alle tastiere, ciò che è mancato in questo
tour è una setlist in grado di stupire per davvero.
I Queen, lo dico da tempo ormai, sono intrappolati
nei Greatest Hits, a tal punto che anche il prossimo tour dei Queen
Extravaganza sarà incentrato sul primo GH. È un vero peccato. Il repertorio
della band è talmente vasto (forse il più ampio della storia del rock e del pop
in termini di successi e di brani che meriterebbero una riscoperta) che le
setlist potevano essere ben più articolate. Certo, c’è da tenere conto di un
aspetto tecnico forse sottovalutato: la complessità del palco e degli effetti
richiedeva forse una certa staticità , non potendo sera dopo sera strutturare
ogni volta uno show troppo diverso dai precedenti. Inoltre, il dover eseguire i
medesimi brani (a distanza spesso di sole 24 ore) ha permesso a Brian, Roger e
Adam di creare la giusta amalgama e costruire una struttura sonora via via
sempre più perfetta. Perché agli anni che passano bisogna rendere il giusto
rispetto, così come alle difficoltà di cantare un catalogo musicale così vario
e faticoso.
Se da un lato, quindi, l’operazione nostalgia sembra
definitivamente accantonata, dall’altra resta in sospeso (almeno per chi vi
scrive) la necessità che lo spettacolo venga sì portato ancora avanti, ma nutrito
con nuove canzoni mai proposte finora dal vivo, per evitare che magnifici
concerti come quelli visti in questi mesi si trasformino, al di là delle
singole intenzioni, in mero intrattenimento.