Era il 5 Aprile
del 1994 e sul mondo della musica calava l’ennesima, tragica ombra. Kurt Cobain,
voce dei Nirvana ma anche di un’intera generazione, moriva nella sua casa di
Seattle.
Accanto al
corpo, ritrovato solo tre giorni dopo, il fucile con il quale Kurt aveva scelto
di porre fine alla sua esistenza e una lunga lettera, indirizzata a Boddah, non
una persona reale ma il suo amico immaginario, forse perfetta rappresentazione
per lo stesso Kurt di quella realtà interiore con la quale ha combattuto per
tutta la vita, anche attraverso la musica.
Il testo è
profondo, lacerante e racconta dell’incapacità di questo giovane essere umano
di cogliere nella propria esistenza quella felicità negata dalle circostanze,
dalle scelte sbagliate, da chi gli stava attorno. O, più semplicemente,
impossibile in virtù di un destino nato storto, avverso.
In uno dei
passaggi più importanti della sua lettera di addio, Kurt cita esplicitamente il
nostro Freddie Mercury (uno dei suoi album preferiti era News Of The World), un mito per lui ma anche un termine di paragone per
raccontare se stesso quando imbraccia la chitarra per salire sul palco e
offrirsi in pasto al pubblico.
Ecco cosa
scrisse:
Per esempio quando siamo nel backstage e le
luci si spengono e sento alzarsi forte l’urlo del pubblico, non provo
quello che provava Freddie Mercury, che
si sentiva inebriato dalla folla, ne traeva energia e io l’ho sempre ammirato e
invidiato per questo.
E poi:
A volte mi sento come se dovessi timbrare il
cartellino ogni volta che salgo sul palco. Ho provato tutto quello che è in mio
potere per apprezzare questo (e l’apprezzo, Dio mi sia testimone che
l’apprezzo, ma non è abbastanza).
Al di là della
tragedia, ciò che emerge dallo scritto di Cobain e che a noi fans dei Queen può
interessare, è la visione che aveva di Freddie, che è poi quella più fedele
anche alla nostra. Un frontman che nutriva la folla con se stesso ma senza
esserne soggiogato. Del resto la scena del Live Aid ricreata in Bohemian
Rhapsody descrive proprio quella sua capacità di dominare la folla e guidarla dominandone
le energie.
Può apparire
ovvio e scontato per noi che Freddie lo osserviamo da anni, quotidianamente. Eppure
attraverso le parole di Kurt Cobain ci arriva l’ennesima conferma di quanto fosse
unico, anche per gli altri artisti. Quel suo “potere magico” di stare davanti
al pubblico senza farsene fagocitare lo ha reso quel frontman inarrivabile,
esempio e forse anche ragione di invidia per molti.
Tuttavia sappiamo
anche per riuscirci, Freddie ha dovuto costruire su se stesso un personaggio,
un alter ego che una volta ha definitivo come un vero e proprio “mostro”,
capace di andare in scena tutte le sere, cedendo alla ribalta un frammento di
sé.
Ciò che resta,
tanto dalla parobola di Kurt Cobain, quanto dalla storia di Freddie, è l’ennesimo
insegnamento su qualcosa che troppo spesso tendiamo a dimenticare: l’umanità ,
profonda e dolente che sta dietro la maschera, alla quale non dovrebbe mai
essere negato quell’amorevole rispetto che talvolta barattiamo con la famelica
pretesa che gli artisti ci appartengano. Ma loro, che siano frontman capaci di
guidare folle oceaniche, o cantanti chinati sulla propria chitarra distorta
mentre urlano nel microfono, appartengono solo a se stessi e a quei demoni che
li divorano dentro.