MASSIMILIANO PARENTE & GIULIA BIGNAMI: VOLEVO ESSERE FREDDIE MERCURY. LA NAVE DI TESEO

 


Tempo fa, ma in realtà dovrei dire parecchio tempo fa, perché è un ricordo che risale a quando ero uno studente universitario fuori sede e così quel “tanto tempo fa” mi riporta in Via del Pratello che, per chi è di Bologna o ci ha vissuto significa alcool, musica fino a tardi e angoli bui sotto i portici dove lasciare le budella a fine serata. Ma ho iniziato subito a divagare pericolosamente. Quindi ricominciamo da capo.

Come vi dicevo ero in Via del Pratello, ficcato a fatica in uno di quei minuscoli pub dove trascorrevo buona parte delle serate lontano dai libri di diritto. Ricordo l’atmosfera appesantita dalle sigarette (si poteva ancora fumare nei locali, roba giurassica per i più giovani di voi) e anche le lamentele del mio amico per la birra troppo calda. O forse troppo annacquata, non saprei. E, a volerla dire tutta, non sono nemmeno sicuro fosse un amico. Molto più probabile che si trattasse di un’amica, sapete com’è.

Il punto comunque non è la birra schifosa e nemmeno il fatto che mi trovassi lì a condividerla con qualcuno che evidentemente aveva la pazienza di starmi a sentire, perché all’epoca parlavo quasi esclusivamente dei Queen, di quanto fossero grandi, inarrivabili e unici e di quanto mi avessero cambiato la vita. Lo faccio ancora oggi naturalmente, ma credo di essere riuscito a mitigare quella sorta di ossessione che mi porto dietro fin dal 1986, una di quelle cose che ti si appiccicano addosso e che porti in giro tutto tronfio, convinto di essere molto più figo per il semplice fatto che ti piace qualcosa e che di quella cosa sai tutto, ma proprio tutto.

Le ossessioni sono pericolose. Hanno il potere di concentrare tutte le vostre energie in una singola direzione, una di quelle cose che alla lunga ho iniziato a detestare, perché se ti fissi su qualcosa, qualsiasi cosa, finisci col perdere di vista tutto il resto, le altre cose verso cui potresti provare interesse. E via così, fino a sacrificare tutto per una stupida ossessione. Anche gli affetti, anche te stesso.

Ma le ossessioni fanno anche stare bene. E a me i Queen hanno sempre fatto un gran bene, anche quando mi hanno fatto piangere, come il 24 Novembre del 1991 o il 20 Aprile del ’92, per non dire del video di These Are The Days Of Our Lives, della statua di Freddie a Montreux, di Mother Love, del ritorno dei Queen “con il più”, di Brian May che mi abbraccia nel backstage di un concerto a Roma o Rami Malek che sussurra “Ay-Oh” mentre lascia l’ospedale e un malato di AIDS lo fissa, forse felice di poter condividere una sorte così terribile con una leggenda come Freddie Mercury.

Però io quel tipo di ossessione (o è una forma di paranoia?) l’ho superata scoprendo che oltre ai Queen c’è molto altro a cui dedicarsi e così oggi mi ritrovo anche a scrivere recensioni sui libri che leggo, perché io senza libri non ci so stare, ho bisogno del profumo della carta, dello sguardo che cade sulle copertine e che poi si perde nelle trame, tra i personaggi e le loro avventure, i risvolti, gli epiloghi, il prossimo romanzo da leggere e commentare, manco fosse un’altra ossessione.

Potete quindi immaginare la mia reazione quando mi ritrovo tra le mani un libro che oltre ad essere un libro è anche un libro che parla dei Queen o di Freddie Mercury. È la classica combinazione (combo per i più giovani) realmente letale, una di quelle cose che mi porta a leggere con un misto di frenesia e attenzione, per non perdere nemmeno una parola, come fossero le note che i Queen mettevano nelle loro canzoni e che dovevo conoscere in ogni possibile sfumatura. Se poi ti rendi conto che il romanzo che hai tra le mani è anche il racconto dell’ossessione del suo autore (uno dei due, in realtà) per Freddie Mercury allora il gioco è fatto, la lettura ti prende completamente e non vedi l’ora di arrivare alla fine per sapere tutto, quasi che la storia contenga qualche rivelazione anche sul tuo conto, quel segreto che tutti noi ossessionati da Freddie custodiamo da qualche parte, talvolta talmente bene da non saper dire nemmeno in cosa consiste. Però c’è ed è quello che ci spinge a considerarlo un dio in Terra, esattamente come fa Massimiliano Parente in Volevo Essere Freddie Mercury, scritto assieme a Giulia Bignami e pubblicato da La Nave Di Teseo.

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Della trama non vi dirò molto, lo sapete come sono fatto, non amo rovinarvi le sorprese contenute in un romanzo. Soprattutto non mi considero un “recensore”, ma solo uno che ama leggere e che si diverte a condividere ciò che pensa, nutrendo la speranza che le parole che riesce a mettere assieme possano incuriosire, divertire o magari anche innervosire e deludere, perché ciò che conta è suscitare qualcosa, almeno un sussulto emotivo. Ecco, se vogliamo parlare di questo libro, allora consideriamo quello che riesce a tirare fuori dal lettore, perché si tratta di un mix piuttosto interessante.

Il primo sentimento potrebbe apparire poco lusinghiero: la rabbia. In effetti con Massimiliano Parente sono piuttosto incazzato e per diverse ragioni, la prima è che di suo non ho mai letto nulla, nemmeno sapevo della sua esistenza. Ma qui siamo nel campo del mea culpa, per cui forse dovrei essere incavolato più con me stesso. Poi c’è la questione che Volevo Essere Freddie Mercury è stato annunciato come il suo ultimo romanzo. Ma come, scopro l’esistenza di uno scrittore innamorato dei Queen come me e quello ha già deciso di averne avuto abbastanza della penna (o della macchina da scrivere o del tablet figo)? Cosa ancora più grave, io con Massimiliano ho avuto anche modo di parlarci (per una mezz’ora al telefono) e la prima cosa che ha fatto è stata confermare che si, questo è davvero il suo ultimo romanzo, dopodiché stop, fine, caput. E io, che sono un lettore che agli scrittori ci tiene parecchio (mi dispero ancora per la dipartita di Arthur Conan Doyle, fate voi) non posso che provare una forma di risentimento nei suoi confronti, tanto che mentre mi raccontava della sua visione della vita, dei Queen, di Freddie, di John Deacon, di Dio e del cosmo, avrei voluti dirgli: “Senti un po’, non rompere e rimettiti subito a scrivere, perché io gli scrittori che non vogliono più essere tali non li sopporto, mi sembrano uno spreco immane di energia e bellezza”. E se alla fine non gli ho detto nulla è solo perché mi ha intrappolato nella sua ossessione per Freddie Mercury e siamo finiti a parlare solo di quello.

L’idea del romanzo è piuttosto semplice, come lo sono sempre le scelte definitive: Massimiliano Parente ha deciso che non vuole più scrivere o forse non sa più farlo come vorrebbe. Ha esaurito la vena creativa, anzi l’ispirazione (concetto che lui detesta e che quindi io uso di proposito, che un po’ di quella rabbia la dove pure sfogare da qualche parte) e quindi potrebbe tranquillamente smettere di esistere perché, come dice lui, se uno scrittore smette di scrivere (o non sa più farlo) allora cessa anche tutte le sue funzioni vitali. Restano i libri, ma del loro autore nemmeno la polvere, il che mi induce a credere che a Massimiliano piacerebbe un sacco una delle frasi più famose di Stephen King: “E’ la storia, non colui che la racconta”.

La domanda conseguente a questa rinuncia (o impossibilità) alla scrittura è fin troppo ovvia: che fare? Sorvolando sulle soluzioni più audaci, quelle che ti fanno finire in cronaca nera per un paio di giorni (non uno di più che tanto dopo c’è sempre un altro fattaccio di cui occuparsi, giusto Massimiliano?) non resta che abbracciare completamente e risolutamente la propria ossessione che nel caso di Massimiliano Parente è Freddie Mercury. Non il cantante dei Queen, mica quello, ma il dio Freddie Mercury, qualcosa di più grande anche della leggenda che alla fine è diventato non appena la morte ne ha sublimato l’esistenza. Se a questo aggiungete che Massimiliano è anche un ateo convinto (ma su questo nutro parecchi dubbi perché anche lui, proprio con questo romanzo, è in cerca di un dio, del suo “personal Jesus”, per quanto estremamente terreno) capite che il meccanismo su cui ha costruito il libro, anzi il suo ultimo libro, è piuttosto diverso dalla solita biografia che magari da fans dei Queen siete convinti di aver acquistato.

Ma io, che sono incazzato con Massimiliano ma di certo non con voi, vi metto subito sull’avviso: Volevo Essere Freddie Mercury non è un libro sul cantante dei Queen, ma è un romanzo in cui Freddie è l’oggetto dell’ossessione dell’autore e quindi, in una forma assolutamente particolare, è anche il personaggio principale, quello senza il quale la trama non potrebbe funzionare. E, se si tratta di un’ossessione salvifica o distruttiva è qualcosa che capirete solo arrivando all’ultima riga.

Il rischio nel dare vita ad un’opera del genere è altissimo. Mentre lo metti assieme cammini sull’orlo di un abisso ben poco piacevole, quello di scrivere un resoconto troppo intimo e personale, oserei dire esistenzialista, in cui ti auto-proclami protagonista della storia, con il risultato di offrire al pubblico una sbobba incomprensibile, perché sarebbe un po’ come mettere sul tavolo il nastro infinito del film della tua vita, ma di quella interiore, che in fin dei conti nemmeno tu conosci davvero e che ti illudi di saper raccontare e gli altri di essere disposti a provare interesse.

Ma non temete, Parente non è incappato in questo tragico errore e tra voi e Volevo Essere Freddie Mercury non è necessario frapporre una distanza siderale. Il merito non è solamente suo ma anche (direi soprattutto) della co-autrice del libro, Giulia Bignami, creatura dolce, premurosa, niente affatto disposta ad accettare tutto ciò che proviene dall’amicizia corrosiva di Parente e, proprio per questo, la migliore amica che gli potesse capitare in sorte. E qui veniamo all’altro sentimento che mi ha suscitato la lettura del libro: l’invidia per il rapporto straordinario che scorre tra Massimiliano e Giulia e che nel romanzo si manifesta attraverso una sorta di scambio epistolare, un continuo botta e risposta con cui raccontano il proprio mondo interiore, le rispettive convinzioni, ma anche le debolezze e le fragilità. Sullo sfondo, naturalmente, sempre lui, il dio in Terra Freddie Mercury, preso a prestito dai due autori per descrivere gli effetti di un’ossessione, di una resa e di un tentativo estremo di restare aggrappati alla creatività, alla vita stessa, rinunciando ad essere se stessi e lasciando che l’ossessione si sovrascriva sulla propria personalità e sui bisogni, anche quelli primari.

Mi rendo conto di aver scritto qualcosa di estremamente criptico per chi non ha ancora letto il libro, il che significa che dovete leggerlo, non tanto per comprendere il senso delle mie parole (poco importanti) quanto per addentrarvi nel sofisticato meccanismo narrativo messo in scena da Parente con la complicità della Bignami. Perché tra le pagine di questo romanzo coesistono verità e bugie, finzioni narrative e umanissime realtà. Per dirla alla Freddie, questo è un libro fatto di bianco e di nero, di luci abbaglianti e rivelatrici e oscurità dense come il petrolio. Ma non solo. Con Volevo Essere Freddie Mercury si ride tanto, perché è anche una storia tragicomica, abitata da personaggi surreali, situazioni improbabili, manco fosse un romanzo alla I’m Going Slightly Mad, solo che il tizio con la teiera in testa siete voi e il fumo vi esce copioso dalle orecchie, un po’ per le risate, un po’ perché vinti dal tentativo di capire cosa c’è di vero e cosa no (e di questo tipo di domande i fans dei Queen se ne faranno parecchie).

Volevo Essere Freddie Mercury è anche un libro profondissimo, intenso e suggestivo, capace di inchiodare il lettore, obbligandolo ad una riflessione introspettiva sulla propria condizione personale, sul suo rapporto con la malattia, la morte, il denaro, l’amicizia, l’amore, il sesso, il bisogno di essere qualcuno, di conquistare il mondo e, infine, di sfuggirvi per ritrovare se stessi. Massimiliano Parente e Giulia Bignami hanno ottenuto ciò che gli scrittori dovrebbero sempre puntare a fare: scrivere con il bisturi per incidere lo spirito, il cuore e la mente del lettore, ma senza rinunciare all’intrattenimento, alla voglia di saltellare qua e là come fossero bambini alle prese con le pozzanghere dopo un temporale estivo, divertendosi nel raccontare storie magari un po’ folli ma sincere.

Infine, Volevo Essere Freddie Mercury è anche un romanzo scomodo, urticante, sboccato e nichilista, una sorta di baccanale alla Living On My Own quando, raggiunta ormai l’alba, il festeggiato gonfio di alcool e di chissà cos’altro si accascia esausto sul divanetto in similpelle, fissa il pavimento sporco di vomito, patatine e pedate e riflette sulla propria esistenza e su quella dell’universo. Ed è un bene che questo libro non sia per niente accomodante o indulgente e che tra le sue pagine non ci siano carezze ma ceffoni ben assestati, perché viviamo tempi bui in cui pensare sembra essere diventato non un lusso ma un’escrescenza inutile, da guardare con sospetto e da eradicare prima che possa infettarci.

Ecco qual è in definitiva il talento di Massimiliano Parente e Giulia Bignami, ecco il senso più alto che io vedo in questo romanzo: l’aver creato una messinscena allegra e fintamente spensierata con cui raccontare qualcosa di complesso e delicato, il bisogno di ritrovare se stessi quando ci si è smarriti da qualche parte, come fossimo stelle comete sparate alla velocità della luce nel buio del cosmo.

E poi un piccolo miracolo. Questo libro fa quello che nessuna biografia finora è stata in grado di fare. Usa Freddie Mercury per raccontare una storia personale e facendo questo intercetta proprio quell’umanità che Freddie ha sempre nascosto tra le pieghe del personaggio che ha creato e di cui è stato in qualche modo vittima. Nessuno ha mai conosciuto Freddie, se non quelle poche persone che gli sono state davvero vicine e che hanno scelto di non dire nulla o di raccontare solo la superfice sfavillante a cui lui stesso si è sempre attenuto.

Nessuno potrà mai scrivere una biografia capace di dirci davvero chi era questo dio in Terra, a meno che non si scelga una strada differenze e obliqua, quella che porta alla ricerca del proprio io attraverso un’ossessione, quella per una leggenda nella quale vorresti trasformarti, salvo poi scoprire che in sorte ti è capitato un destino diverso, quello di essere semplicemente te stesso, nutrendo la speranza che alla fine arrivi la risposta a quella domanda che ti ossessiona da sempre: è tutto vero? O è solamente fantasia?

A noi lettori invece resta la certezza di aver attraversato i pensieri, estremi e proprio per questo ancora più autentici, di due scrittori che hanno scelto di mettersi a nudo, ma senza rinunciare del tutto a quei costumi che Freddie si divertiva a sfoggiare, perché in fondo indossiamo tutti delle maschere, passiamo la vita a volercene liberare e appena ci riusciamo ne sentiamo subito la mancanza. Così ci mettiamo a scrivere, inventiamo storie, celiamo qua e là un po’ delle nostre verità e lasciamo che il risultato finisca tra le mani di chi quelle dolci ossessioni le conosce fin troppo bene e non trova poi così strano passare davanti a un specchio, fermarsi un istante e con il pugno verso il soffitto intonare un appagante “Ay-Oh”.



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