La più grande storia musicale mai raccontata al cinema. Il mio commento a Bohemian Rhapsody




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Sono in piedi davanti allo specchio dell'ingresso già da qualche minuto. Tento di sistemare la sciarpa attorno al collo, ma quella non vuole saperne di restare infilata sotto il bavero del cappotto. La sciolgo, provo a farla girare attorno in un altro verso. Alla fine la spingo a forza sotto il maglione e tiro su la cerniera. Prima di uscire controllo per l'ennesima volta di avere tutto ciò che mi serve. Il portafogli in una tasca, le chiavi e il cellulare nell'altra. Avverto una vibrazione sulla coscia. L'ennesima notifica che per oggi decido di ignorare. Alla fine tiro un lungo sospiro ed esco.
Fuori mi accoglie l'abbraccio gelido dell'inverno. È arrivato all'improvviso, anche quest'anno. Il berretto calato sulla fronte mi tiene caldo e nasconde alla vista una porzione di cielo grigio. Ho deciso di raggiungere il cinema a piedi. Per questo sono uscito presto. Ho bisogno di camminare, di mettere tra un passo e l'altro i pensieri che da giorni tentano la scalata senza successo dal profondo della mia coscienza.
Per raggiungere la multisala devo attraversare una porzione del mio quartiere, superarne un altro e seguire un lungo ponte sospeso sulla vegetazione nata spontaneamente attorno a un corso d'acqua. Da qualche anno laggiù è sorto anche un parco.
Mentre cammino a passo svelto mi soffermo un istante ad ammirare i rami di un albero. È maestoso, ma le fronde rinsecchite dalla stagione lo fanno assomigliare ad un corpo emaciato, stanco. Forse è per questo che non posso fare a meno di immaginare la sponda del lago di Montreux dove Freddie ha passeggiato tante volte prima che la malattia gli impedisse di muoversi. Lo vedo con gli occhi della mente stretto in un lungo cappotto scuro, lo sguardo nascosto dietro gli occhiali da sole, circondato da gente che non ci bada troppo a quella figura solitaria e nemmeno lo riconosce. Lo osservo mentre si china verso l'acqua e tende la mano per sfiorare il becco di un cigno che coraggiosamente ha conquistato la riva in cerca di cibo. Poi Freddie sorride e riprende il suo cammino. Io faccio altrettanto, con l'insegna del cinema ormai prossima.

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Quando arrivo all'ingresso gli sportelli con le casse stanno appena iniziando la loro attività. Ammetto con me stesso di essere in grande anticipo. Ma è una scelta voluta. Acquisto i biglietti e mi soffermo davanti alla locandina gigante che annuncia l'uscita di Bohemian Rhapsody.
Quanti mesi di attesa sono trascorsi. Quante notizie, ipotesi, considerazioni. E quante discussioni, talvolta anche tumultuose con chi su questo film ha costruito le proprie personali aspettative. L'ho fatto anche io naturalmente, ma adesso che sono a pochi minuti dalla visione del risultato, inizio a chiedermi seriamente cosa sto per vedere.
Non è la prima volta che ci ragiono su. Si tratta di mettersi sulla spalle il bagaglio giusto di idee, per non correre il rischio di essere lo spettatore sbagliato davanti al film che non ti aspetti.
La locandina mi aiuta con le sue indicazioni. Bohemian Rhapsody è stato scritto da Anthony McCarten, sceneggiatore premio Oscar che ha ereditato la storia da un altro pluripremiato, Peter Morgan. E poi naturalmente c'è il produttore esecutivo, Graham King, c'è la Fox e c'è Bryan Singer, il regista. Ognuno ha necessariamente dato il proprio contributo, ha introdotto un elemento di sé che per forza di cose ha determinato la narrazione cui sto per assistere.
E poi ci sono Brian May e Roger Taylor, consulenti e detentori della storia dei Queen, circondati da collaboratori di lungo corso, amici, persone che hanno conosciuto Freddie o esperti di tutto ciò che riguarda la carriera della band. I ricordi personali e intimi mescolati con le necessità proprie del cinema. In fondo è questo Bohemian Rhapsody. L'incrocio tra due realtà così simili e, allo stesso tempo, talmente differenti che l'esito può essere un disastro. Oppure un successo. Al momento, mentre il vento si dà da fare sulle mie spalle per provare a smuovermi, non so decidermi su quale delle due ipotesi sia la più probabile. Così resto fermo, mentre l'atrio del cinema inizia ad animarsi di luci, profumi e di quel senso di attesa simile al pulviscolo agitato dai raggi del sole. Una sospensione del tempo che è anche vibrazione emotiva.

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Nel frattempo sono arrivate altre persone. Voci sconosciute che chiedono uno o più biglietti per Bohemian Rhapsody. Volti giovani, alcuni palesemente adulti. E ci sono anche bambini, coppie in là con l'età. Esattamente lo stesso pubblico dei concerti più recenti dei Queen. Inizio anche a sentire la stessa energia provata in quei momenti, quando l'arena sportiva prestata alla musica inizia a riempirsi attorno al palco celato dietro i teli e gli schermi giganti.
E così all'improvviso trovo la risposta che cercavo. È sempre stata lì, nell'elemento più importante, la musica. Si, adesso so qual è il modo giusto di vivere Bohemian Rhapsody. Ripenso a tutte le volte che ho acquistato un loro album e alle sensazioni che ho provato ascoltandoli per la prima volta. Testi autobiografici, ma non interamente reali. Storie sincere eppure mediate attraverso l'ispirazione del momento. Penso proprio al brano scritto da Freddie. Canta di un uomo che ne uccide un altro, forse se stesso, e di una fuga disperata, mentre cerca rifugio sicuro nell'invocazione rivolta alla propria madre. È tutto vero? O è solo frutto della fantasia. Entrambe le cose. Proprio come deve essere un film.

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Finalmente giunge il momento di entrare al cinema. Non sono da solo. Accanto ho l'unica persona che so potrà accogliere le mie emozioni. Non è una fan come me, pur avendo messo piede in questi anni nella passione per i Queen grazie alla mia garbata insistenza. Ci sediamo mentre anche gli altri spettatori prendono posto. Sono già in onda gli spot pubblicitari, minuti buoni in cui controllare le notifiche sul cellulare, scattare una foto, rispondere frettolosamente a chi ha scelto proprio quel momento per chiamarti.
Sono nervoso, non posso negarlo. Nell'ultimo anno ho visto foto e video dal set. Ho letto interviste e cercato di cogliere la verità dietro indiscrezioni e dichiarazioni. Ho lavorato al mio personale bagaglio di aspettative. Ma tutto adesso cede il posto ad uno stato di tensione che brucia mente e corpo. Cerco di trovare una posizione comoda. La signora che mi sta accanto coglie la mia difficoltà, ne è infastidita e decide di lasciare tra noi una poltrona vuota. Lei non lo sa, ma apprezzo il gesto. Voglio spazio. Aria. Voglio avere davanti a me solo lo schermo e accanto chi può capirmi e accogliermi.
E poi succede. Non dovrebbe essere nulla di sorprendente. Non è certo la prima volta che sono al cinema. Eppure, quando le luci si spengono e la Red Special di Brian replica la sigla della 20th Century Fox trattengo il fiato. Ci siamo. Eccoci. Non posso più fuggire. Le note di Somebody To Love mi prendono per mano, lo fanno con delicatezza e mi trasportano al di là dello schermo.
A questo punto, mentre sono davanti al computer a scrivere questa storia, vorrei poter lasciare un grande spazio bianco, qualcosa di accecante in cui scivolare tutti assieme mentre leggete queste parole. Un posto caldo e accogliente, nel quale ritrovarci tutti assieme a ridere e commentare. Allo stesso tempo però sento il bisogno di spiegare, raccontare, di ripercorrere la storia del film. Un lungo flashback della memoria, una macchina del tempo emotiva i cui ingranaggi scorrono a ritroso e mi riportano a Londra, tra gli operai stanchi addetti ai bagagli e quel giovane di origini indiane che si lascia passare davanti agli occhi gli adesivi di mille nazioni, immaginando che un giorno le potrà conquistare dall'alto di un palco.
Rami ci offre la prima immagine di Freddie. Giovane, capelli lunghi, incarnato scuro, labbra pronunciate e denti da coprire con le mani quando ride. Eppure nella sua fisicità ancora non del tutto definita si intravede quella grandezza che nel giro di pochi anni farà parlare tutto il mondo. Sto già guardando le prime scene pensando che quello sia Freddie. È un buon segno, non c'è dubbio.
Il film inizia da quando la famiglia Bulsara ha dovuto abbandonare Zanzibar, ma l'elemento che emerge è soprattutto la conflittualità tra il giovane Farrokh e il padre, mentre la madre appare subito più indulgente verso questo figlio così compresso nelle tradizioni di famiglia. Sullo sfondo, proprio come nella vita vera, la timida Kashmira, che guarda al fratello con un misto di sospetto per quel coraggio che dimostra nello sfidare la figura paterna e una buona dose di invidia vestita di sottile ironia, forse perché vorrebbe essere proprio come lui.
È difficile stabilire se quelle tensioni abbiano un fondo di verità, magari perché raccontate da Brian e Roger o se, piuttosto, siano una libera interpretazione dello sceneggiatore. Non c'è dubbio però che l'adolescenza di Freddie non deve essere stata semplice. Troppo tumulto in quell'animo ancora tutto da far sbocciare, soprattutto mentre il boato della grande città, Londra, si faceva sentire col suo richiamo.

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L'incontro con Brian May e Roger Taylor (che si interseca con quello con Mary Austin), ancora componenti degli Smile, è la prima dichiarazione di intenti del film. Ci spiega cosa stiamo vedendo. Non una ricostruzione pedissequa della storia, ma un racconto che a un certo punto ha avuto l'opportunità di essere calibrato, cesellato, al limite anche destrutturato allo scopo di offrire non una narrazione documentaristica, ma una rappresentazione dei contenuti, dei significati profondi.
Ecco quindi che arriva la defezione di Tim Staffell (che meraviglia la sua Doing All Right rifatta in questi giorni e già ascoltata nella colonna sonora del film) e l'intuizione di Freddie che lo spinge a proporre l'unione dei rispettivi talenti. Qui il film si fa romanzo, lo sappiamo. Le cose andarono diversamente ed è un peccato che sia stato tralasciato il rapporto di amicizia pre-esistente tra lo stesso Freddie e Roger Taylor. Ho immaginato per lungo tempo la bancarella dove vendevano abiti usati in Kensington Market e ho intravisto il momento in cui David Bowie acquistava proprio da loro un paio di stivali.
Nel film invece è stata scelta una versione più semplice, così come l'ingresso nella band di John Deacon, che arriva all'improvviso già con il primo show con Freddie. Per un fan dei Queen non sono dettagli da poco. Sono frammenti di una storia bellissima a cui siamo tutti legati in modo viscerale. Eppure non riesco a odiare le scelte cinematografiche che mi vengono proposte fotogramma dopo fotogramma. Il film continua e io ne resto rapito.

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Se c'è una cosa dei Queen che ho sempre adorato è quel senso di ironia che permea il carattere dei componenti della band e anche il loro modo di fare musica. Sono felice che questo elemento nel film sia rappresentato, quasi fosse una sorta di linea guida che in qualche modo tiene lo spettatore ancorato ad emozioni disincantate, in attesa dei momenti più duri della trama.
E così rido quando la band presenta il progetto A Night At The Opera all'unico personaggio di fantasia del film. Un produttore musicale che, sebbene reduce da un album capolavoro come The Dark Side Of The Moon dei Pink Floyd (meravigliosa citazione questa che tradisce dove i Queen collochino il loro album), non intende lasciarsi persuadere dalle manie di grandezza di quei quattro musicisti così pieni di sé.
La scelta di far interpretare il ruolo a Mike Myers non è solo il meritato omaggio a chi dei Queen ha fatto la fortuna in America nei primi anni '90 (grazie al film Fusi di Testa), ma è anche un intermezzo che fa ridere di gusto e spiega, dopotutto, quali erano le reali sensazioni attorno al gruppo. Perché oggi il pubblico li percepisce come la band dai grandi successi, eppure c'è stato davvero un tempo in cui dovevano lottare per essere considerati all'altezza.
L'animosità tra il produttore e la band è il ponte che introduce lo spettatore in uno dei passaggi fondamentali del film e della carriera stessa dei Queen. La nascita di Bohemian Rhapsody. Visitiamo gli studi dove realizzeranno gran parte del disco, scopriamo quanto le differenze caratteriali tra i quattro generano quegli scontri da cui per paradosso sono nate le cose migliori fatte dalla band. Soprattutto ci viene svelata in rapida progressione quale sia la visione di Freddie: diventare il più grande attraverso la realizzazione di una musica mai fatta prima, ambiziosa e capace di travalicare i generi, spingendo gli altri membri del gruppo e i tecnici a sperimentazioni ardite eppure efficaci, quasi che anche la limitata tecnologia dell'epoca si sia inchinata di fronte a tanta grandezza.
È da quel momento che Bohemian Rhapsody inizia a sviluppare una doppia narrazione. Da un lato i successi sempre più crescenti della band, sottolineati da allestimenti scenografici via via più sontuosi, pubblico più vasto e riprese che crescono in termini di eleganza ed efficacia. Dall'altro gli arabeschi dell'anima con i quali Freddie inizia un confronto che presto diventa scontro e, infine, totale liberazione. Si parte con semplici accenni, magari uno sguardo lanciato ad un camionista di passaggio nel retro di un locale (in questo caso concedere un'apparizione ad Adam Lambert è stato perfetto, quasi a voler chiudere una sorta di cerchio con la storia dei Queen di oggi). In questo senso l'interpretazione di Rami non può non sorprendere. Sullo schermo il suo sguardo si accende di patimenti, dubbi, timori, di tutta una ridda di emozioni che solo un grande attore è in grado di svelare senza il supporto di una battuta. Sarà per questo che mentre guardo il film penso di assistere alla consacrazione di un professionista di cui si continuerà a parlare.

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Più il film mostra il lato complesso di Freddie, più rilevante si fa la figura di Mary Austin, interpretata da una Lucy Boynton la cui bellezza lascia sgomenti ogni volta che appare sullo schermo. L'importanza di Mary nella vita di Freddie è nota, ma non per questo rappresentarla in un film era cosa facile. La complessità del loro rapporto umano richiedeva una sensibilità tutta particolare. In questo Rami e Lucy sono stati indubbiamente aiutati da qualcosa che ha travalicano la linea di demarcazione tra realtà e finzione. Perché su quel set i due attori si sono innamorati per davvero e la potenza di quel sentimento li ha certamente aiutati a rappresentare, descrivere, raccontare un passaggio essenziale come quello in cui Mary spinge Freddie alla dichiarazione più dura.
Tutto avviene in un salotto. I due sono seduti su un divano. È capitato a tutti noi di condividere uno spazio così esiguo con la persona amata. È successo a tutti di doverne ferire il cuore in modo irrimediabile. E Freddie lo fa. Ma non di sua spontanea volontà.  Ci riesce perché è Mary a guidarlo, a spingerlo verso una spiegazione che lei conosce già da tempo è che per l'amato sarà soprattutto liberazione. Mary lascia che Freddie le spezzi il cuore. In un gesto di umana resa, si allontana verso la finestra. Forse con lo sguardo cerca già un nuovo orizzonte verso cui dirigersi. Tenta anche di sfilarsi l'anello che Freddie le ha regalato (Dio mio, voleva sposarla!). Lui glielo impedisce. Le chiede un sacrificio, l'ennesimo. Di restargli accanto. Per sempre. Noi lo sappiamo, lei lo ha fatto per davvero. Vederlo rappresentato sullo schermo genera un moto di infinita compassione per questa donna e per un uomo che è finalmente diventato se stesso attraverso il sacrificio di un sentimento. Se questo è il cinema, allora lo amo. Con tutto me stesso.

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Il doppio binario narrativo del film prosegue con la rappresentazione dei Queen in tour, nelle conferenze stampa di presentazione degli album e impegnati sui set dei loro video. Viene mostrata la realizzazione di I Want To Break Free e anche qui è innegabile la deviazione dalla storia per come la conosciamo. Piuttosto che mostrare Freddie e gli altri membri del gruppo assolutamente felici di prendere parte a quel gioco, il film sfrutta l'occasione per sottolineare la sempre più crescente separazione tra Freddie e gli altri tre. Questa è la parte del film in cui la figura di Paul Prenter diventa sempre più invasiva e determinante delle scelte operate da Freddie. Prenter è un personaggio odioso, viscido, opportunista e anche profondamente solo che vede nella grandezza di Freddie un mondo nel quale anche lui deve entrare a tutti i costi, non come ospite di riguardo ma come protagonista assoluto. Sappiamo che, in effetti, la sua presenza accanto a Freddie è stata malsana, addirittura distruttiva. Nel film ci viene presentato soprattutto come il fattore di disturbo, quello che spacca l'armonia all'interno dei Queen.
Anche in questo caso resta difficile stabilire quanto mostrato nel film sia aderente in modo assoluto con la realtà. Bohemian Rhapsody offre tanti tagli e salti temporali, scelte non facili da digerire per il fan che a quella storia è legato tanto da dirsene innamorato. Risulta difficile accettare l'esibizione di Rio negli anni '70, oppure l'eccessiva semplificazione di alcuni tratti caratteriali, su tutti la figura di Roger Taylor, non del tutto convincente. Il problema, se tale può essere definito, è che siamo di fronte ad un film che tenta di fare molte cose assieme e tutte maledettamente difficili, a partire dalla volontà di raccontare la storia di un personaggio che tuttavia, per natura stessa della vicenda narrata, non poteva essere l'unico protagonista, anche se gli altri personaggi rischiano a tratti di apparire come meri comprimari.
Allo stesso modo rifletto sul fatto che alcune scelte narrative potevano essere rappresentate in modo diverso. Penso ai rapporti interni alla band, che in alcuni momenti sembrano legati essenzialmente alla vita da studio, mentre sono omessi passaggi altrettanto fondamentali come la vita in tour o, ancora di più, quei dialoghi più intimi e privati attraverso i quali negli anni i rapporti tra i quattro si sono definiti e cementati.
Ma è altrettanto innegabile che portare sullo schermo tutto questo avrebbe richiesto un dispendio di tempo e risorse ben più ampio, probabilmente a livello di quelle sontuose trilogie cui ci ha abituato il cinema di uno come Peter Jackson, tanto per citare un nome a me caro. Ma non era questo il caso. Bohemian Rhapsody doveva rappresentare, e ci riesce benissimo, uno spaccato della storia di Freddie e dei Queen. Non l'esatta descrizione, non l'approfondimento documentaristico ma, piuttosto, la visione d'insieme, quasi il gusto generale di qualcosa che lo spettatore sceglierà di approfondire autonomamente, proprio perché il film funziona a più livelli, da quello emotivo a quello di mera rappresentazione di una storia.

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La trama si fa intensa quando la rottura tra Freddie e il resto del gruppo diventa ineluttabile, sospinto con maligna e per certi versi patetica ostinazione da un Paul Prenter sempre più demiurgo delle scelte di un uomo che, complice la separazione da Mary, vede ampliarsi nel profondo quel senso di solitudine che nel corso della sua carriera lo ha portato a scrivere canzoni drammatiche come Somebody To Love o It's A Hard Life.
Interessante a questo punto l'ingresso nella vita di Freddie di Jim Hutton. Devo ammettere che di lui ho sempre avuto una visione non del tutto positiva. Tutta colpa di un libro che, scritto da un giornalista, raccoglie le dichiarazioni di Jim in un momento difficilissimo della sua esistenza, subito dopo la morte di Freddie. Innegabile però l'abnegazione avuta da Jim nei confronti del compagno. Una profonda dolcezza che nel film emerge nonostante al personaggio siano concesse poche inquadrature. Eppure si coglie l'essenza della sua figura che a un certo punto diventerà essenziale per il benessere di Freddie. Va detto che anche in questo caso la storia del loro incontro è stata romanzata e forse trattata con eccessiva celerità. Ma sappiamo che in fase di post-produzione sono stati tagliati almeno 40 minuti. Sono tante le cose ridotte all'essenziale o addirittura completamente eliminate nel montaggio finale. Su tutti l'assistente storico di Freddie, quel Peter Freestone che pure del film è stato uno dei consulenti.
Ma i Queen si sciolsero realmente a un certo punto, come racconta Bohemian Rhapsody? E fu colpa di Freddie? Alla prima domanda è necessario rispondere con un no secco. In effetti tra il 1984 e il 1985 la band continuò ad andare in tour ed incidere canzoni, sebbene i rapporti personali all'interno del gruppo fossero logori e accesi da continue discussioni. Alla seconda domanda si può rispondere così: la responsabilità di certe tensioni non era solamente di Freddie, ma la sua scelta di incidere un disco solista al di fuori del contesto Queen fu determinante per l'acuirsi della crisi. Molti giustamente sottolineano in proposito che non fu Freddie il primo ad avventurarsi fuori dalla band. Roger lo aveva fatto ben prima, con un singolo già a metà degli anni '70 e ben due album all'attivo agli inizi degli anni '80. Tuttavia il batterista aveva realizzato “le sue cose” sotto la stessa etichetta dei Queen e senza mai allontanarsene. Il Mr Bad Guy di Freddie, invece, avrebbe potuto avere un impatto ben diverso sulla storia della band qualora avesse avuto successo. Contrattualmente e stilisticamente era di quanto più lontano si potesse immaginare dai Queen. Non fu una rottura dunque, ma una prova generale in vista di qualcosa di potenzialmente diverso.

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A questo punto il film introduce un nuovo capitolo. Il periodo degli eccessi nei quali Freddie visse soprattutto nel trasferimento dei Queen a Monaco di Baviera, anche se in Bohemian Rhapsody viene lasciato intendere che ad andarci fu solamente Freddie dopo la “rottura” con il gruppo. Ancora una volta l'interrogativo con cui si apre Bohemian Rhapsody (la canzone) emerge in tutta la sua forza: stiamo assistendo a un momento di realtà o è tutta opera di fantasia. La risposta è, come spesso accade, nel mezzo. Perché le feste esagerate dei Queen sono un fatto storicamente noto e mai del tutto raccontato, così come gli eccessi nei quali Freddie amò vivere per un certo periodo della sua vita. Per quanto possa far male ammetterlo, in quella fase Freddie commise tanti errori e inevitabilmente divenne qualcosa di diverso da ciò che era stato fino a quel momento. Forse sarebbe sbagliato dire che era allo sbando. Ma è fuori di dubbio che seguire il percorso tracciato per lui da Paul Prenter lo portò ad immergersi in un mondo di lussuria e pericolosità nel quale alla fine, almeno in parte, si perse.

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Un gruppo di uomini fa sesso su un divano. Accanto a loro una modella china su un vassoio sniffa della cocaina, mentre sullo sfondo Freddie danza a petto nudo contornato da ospiti incipriati che agitano calici di vino verso il soffitto. Le notti movimentate di Monaco potevano essere rappresentate così nel film. Ma non c'è niente di tutto questo. Solo degli accenni, dei riferimenti espliciti eppure non disturbanti, che allo spettatore concedono tutte le spiegazioni di cui ha bisogno senza necessità di rimestare nel torbido di una certa dissolutezza che, lo sappiamo c'è stata.
Guardando il film ho pensato che tutto questo non poteva essere fatto che così. Perché talvolta per colpire lo spettatore non è necessario mostrare in modo diretto. Un ammiccamento o una sottolineatura dettata da un movimento della telecamera hanno il potere di imprimersi maggiormente perché non urtano la suscettibilità di chi osserva e al contempo ne cattura l'attenzione.

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Mentre scrivo il pomeriggio ha iniziato a cedere il passo alle ombre della sera. Ho scritto tanto e ancora tanto vorrei dire. Sto ripercorrendo Bohemian Rhapsody attraverso le scene per me più rilevanti. Cerco di mettere assieme gli aspetti emotivi con quelli più ragionati. So anche che tante cose che poi considererò importanti mi stanno sfuggendo. Riassumere un film è impossibile. Ancora più difficile è offrire l'esatto resoconto di ciò che ho visto e provato. Mi tornano in mente, ad esempio, i momenti più auto-celebrativi, come la creazione di We Will Rock You e Another One Bites The Dust, certamente romanzati e cronologicamente posizionati a vantaggio della sceneggiatura. Ripenso agli omaggi presenti nel film, su tutti quello a Montserrat Caballé con Freddie che ascolta un suo disco mentre cerca un contatto almeno visivo con una Mary sempre più distante. Tante cose da evidenziare e analizzare, per il puro piacere di condividere con voi idee e sensazioni, quasi che questo film sia stato una sorta di passeggiata in un giardino. Ci passi attraverso, ti stupisci delle forme e dei colori ma alla fine ciò che ti resta più impresso sono i profumi colti quasi a livello inconscio e che non saprai mai definire fino in fondo.

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La vita di Freddie sul finire è stata tragica. Sappiamo fin dall'annuncio del progetto che in Bohemian Rhapsody la sua morte non sarebbe stata trattata. È stato invece sempre detto chiaramente che della malattia si sarebbe parlato. In che modo? Anzitutto anticipando il momento in cui Freddie scopre di aver contratto il virus dell'HIV, creando una cesura storicamente inattendibile con l'esibizione del Live Aid.
Questo è probabilmente il cedimento della verità più grande visto nel film. Perché è fuori di dubbio che chi non conosce la storia dei Queen legherà quella performance ad un sentimento che tuttavia non sarebbe giusto nutrire. Quello di un Freddie che già consapevole di avere i giorni contati regala al mondo uno show leggendario. Questo non è mai successo. Non in quel dato momento storico, perlomeno.
Eppure nel film acquisisce un valore indiscutibile, che fa soprassedere su una scelta così controversa. Perché in effetti Freddie qualcosa del genere l'ha fatta veramente, incidendo canzoni fino alla fine e non smettendo mai di essere ciò che desiderava da sempre: un cantante e un amante della vita attraverso la musica.
Dire che Freddie ha inciso The Show Must Go On in condizioni già precarie non è tanto diverso da offrircene la versione in cui l'impresa avviene sul palco di Wembley. La forza, la determinazione, la volontà di Freddie sono elementi ben presenti in questa parte del film che non ha l'obbligo di raccontare la verità didascalica, ma l'essenza delle cose. Una verità ancora più profonda per certi versi, quasi che la finzione si faccia carico di dirci ciò che la storia ci ha solamente sussurrato.
Non si può poi non apprezzare le modalità con le quali viene rappresentato il momento esatto in cui a Freddie viene comunicata la diagnosi. C'è quel momento, di assoluta e struggente bellezza in cui a testa china, cappello con visiera tirato sugli occhi, Freddie guadagna rapidamente l'uscita da una clinica. Lì, seduto in corridoio trova un ragazzo, che nella figura smunta e già ferita dalla malattia sembra quasi rappresentare lo specchio futuro di ciò che sarà lui entro breve tempo. E i due scambiano una singola battuta. Un “de-oh” con il quale il ragazzo dimostra di riconoscere Freddie e che rappresenta, con dirompente semplicità, la via da seguire. L'unica possibile. Cantare. Con tutto se stesso, fino alla fine.

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La scena del Live Aid, che di fatto conclude il film, è oltre ogni più ragionevole aspettativa, nonostante tra fotografie e video avessimo già idea di come è stata ricreata. All'interno di quello stadio si percepisce tutta la tensione emotiva di chi è tra il pubblico e di chi attende dietro le quinte l'abbraccio della folla. I Queen sono in attesa nella loro roulotte, i volti tesi, il timore di fallire palpabile soprattutto dopo aver svolto delle prove condizionate dallo stato di salute di Freddie. Ma poi arriva il momento di salire sul palco, il luogo dove Farrokh Bulsara smette i panni del ragazzo timido in cerca di un sogno da realizzare e che diventa lui, Freddie Mercury. Ciò che è riuscito a fare Rami Malek in questa scena è senza precedenti. Riesce ad essere Freddie in tutto, dalle pose agli ammiccamenti e anche la sincronia è stupefacente con l'originale, a ulteriore dimostrazione di quanto il lavoro fatto da Bryan Singer alla regia meriti davvero molta più attenzione di quanto le circostanze finora non gli abbiano tributato.
L'aspetto più emozionante è l'interazione tra Freddie e il pubblico e la capacità del film di farci essere parte di esso. Dentro ci sono tutte le tipiche emozioni che si vivono ad un concerto dei Queen. Riuscire nell'impresa di filmare con tanta efficacia aspetti in realtà assai complessi è sbalorditivo. Perché, per quanto uno show sia sapientemente costruito, c'è una buona dose di spontaneità e imprevedibilità che non puoi prevedere e che costituisce di fatto gran parte dell'emozione che può darti la musica dal vivo.
Nel film invece la scena è stata per forza di cose scritta e realizzata a tavolino, con l'obbligo di seguire un percorso rigidissimo. I movimenti dei protagonisti potevano essere quelli e soltanto quelli. Anche minuzie come uno sguardo o una luce non potevano debordare oltre un certo canovaccio. Eppure in questo schema così rigido e invalicabile, Rami riesce a restituirci il Freddie più vero e potente che si sia mai visto al cinema. Ed è questo il motivo per cui guardando l'esibizione sento crescere nel profondo qualcosa di forte. Un'onda di marea. Uno tzunami che irrompe, ma senza fare devastazioni, che trascina lontano e mi spinge in una direzione che non mi sarei mai aspettato di poter intraprendere ancora una volta.
Succede in un'istante. Non lo dimenticherò mai. Ci sono io. E con me c'è quel ragazzino che ascoltava gli album dei Queen e costruiva su quelle canzoni il proprio coraggio di vivere. Lo osservo mentre ascolta la voce di Freddie e ne ammira le movenze sul palco. Sorrido quando si entusiasma per un assolo di Brian o per un passaggio ritmico di Roger e John. Provo una infinita tenerezza quando questo piccolo me stesso di tanti anni fa torna a casa e scopre che Freddie è morto. Ed è questo che alla fine capisco attraverso l'atto finale del film. Che mi manca. Che il vuoto disegnato dal dolore vissuto quel giorno del 1991 ha spezzato qualcosa dentro di me. Una ferita che con l'età adulta ho creduto si fosse rimarginata e che invece c'è ancora. La perdita inconsolabile, la nostalgia. Forse addirittura il risentimento perché lui, proprio lui, mi ha lasciato.

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Inizio a piangere. Lo farò finché non saranno terminati i titoli di coda e anche oltre. Piango perché Freddie è andato via. Piango perché Rami lo ha riportato qui, proprio di fronte a me. Me lo ha restituito con la potenza evocativa di cui solo il cinema è capace e che con la complicità della musica ha espresso un'energia ancora più intensa e vera. E quando alla fine della loro performance, i Queen (oh si, adesso sono i Queen, non degli attori) si avvicinano al limitare del palco per salutare il pubblico e Freddie si volta verso la telecamere, proprio verso di noi, verso di me, ho una vertigine. Sono sullo strapiombo della gioia che si mescola con la più devastante delle nostalgie. Freddie mi guarda. Osserva tutti noi e sembra volerci fare spazio per ammirare ciò che ha di fronte, come a dire: guardate questo pubblico! Osservate la felicità sui loro volti. Lo abbiamo fatto noi, con la nostra musica. Forse è stato un cammino troppo breve. Ma dopotutto, ne è valsa la pena, non è vero? 
Cosa resta addosso. E cosa nel cuore. Ho le mie emozioni e forse queste parole non sono state capaci di raccontarle. E voi, che avete avuto la pazienza di leggere, custodite gelosamente le vostre. È tutta qui la magia di questo film. È qui che si cela l'essenza stessa dei Queen e di questa figura maestosa che tutto il mondo conosce e ama. C'è qualcosa di inesplicabile in questa musica e da oggi anche sullo schermo illuminato del cinema. Qualcosa che nessuna dissolvenza in nero potrà mai cancellare del tutto. Una verità che ha trovato il proprio posto accanto alla fantasia. Come avviene nei sogni. Quelli che però, al risveglio, restano lì, a gravitarti nell'anima. Ancora una volta, per sempre.