Provate ad immaginare una
distesa infinita di alberi, talmente fitti che ad osservarli
dall'alto di una collina è impossibile distinguerne i contorni. Il
vento che ne agita le fronde sembra disegnare sulla loro superficie
infinite ondate di marea, simili all'incessante respiro della terra
stessa. Solo che quelli che ho di fronte a me in questo momento non
sono alberi ma persone, tutte stipate nello stadio di Wembley già da
diverse ore. Li osservo stando nascosto nel backstage. Qualcuno ha
avuto la compiacenza di aprire un varco nelle pesanti tende che
delimitano l'accesso al palco e da lì posso guardare furtivamente
ciò che accade tra il pubblico. Prima di me anche altri hanno fatto
la stessa cosa e l'espressione che ho visto dipinta sui loro volti mi
ha spinto a infilare la testa nello strappo ricavato da una cucitura.
L'impatto con quella visione mi ha ricordato certi tuffi fatti dal
trampolino e la sensazione che ti dà l'acqua gelata quando il petto
ne colpisce la superficie. Tutto accade in una frazione di secondo:
l'acqua sembra dura come il ferro prima di accoglierti con un
abbraccio gelato che ti strappa il fiato dal petto. Mentre osservo la
gente che si agita, che salta e batte le mani per ingannare l'attesa,
sento formarsi dentro di me un piccolo nodo di panico, quasi che il
palco abbia all'improvviso cambiato forma davanti ai miei occhi per
trasformarsi in un trampolino troppo alto da affrontare. Poi mi
sforzo di respirare e mentre il pubblico è attraversato da onde non
disegnate dal vento ma dall'eccitazione per lo spettacolo, ritorno
nell'angolo buio che mi ha accolto finora e la cacofonia di urla e
canti si smorza quanto basta per consentirmi di recuperare il
controllo.
Alle mie spalle Brian,
Roger e Freddie stanno parlando con un tecnico del suono, un uomo
corpulento, con la pelata sudata e un paio di cuffie enormi che gli
avvolgono il collo simile ad un boa pronto a serrare una presa
mortale. Come sempre lascio a loro l'incombenza di definire gli
ultimi dettagli tecnici prima di salire sul palco. Tra poco sarà il
nostro turno e il Live Aid diventerà parte della nostra storia. Non
sono mai stato un tipo nostalgico e ogni volta che imbraccio il mio
basso penso che, dopotutto, si tratta solo di suonare un po' di buona
musica e di far divertire la gente. Ma oggi qualcosa è diverso, una
sottile corrente elettrica scorre nelle mie mani e mi rende agitato.
So che è così anche per gli altri ragazzi, ma io non dovrò fare
altro che stare nel mio angolo vicino alla batteria di Roger. Lo
spettacolo dovranno farlo loro, soprattutto Freddie. Talvolta mi
chiedo come ci riesca a sopportare tutta quella pressione. Ma
stamattina si è presentato allo stadio con quella luce particolare
negli occhi che ho imparato a riconoscere in così tanti anni e so
che anche stavolta andrà tutto bene, forse anche meglio del solito.
Là fuori non c'è il nostro palco, non ci sono le nostre luci e il
nostro solito staff. Siamo circondati da estranei e qualche manciata
di amici, ma sono tutti troppo concentrati sulle rispettive
esibizioni e così alla fine ognuno è rimasto sulle sue, ciascuno
perso nei propri pensieri. E dire che fino a poche settimane fa ero
convinto che oggi 13 luglio 1985 mi sarei goduto il sole in qualche
spiaggia tropicale, o magari mi sarei fatto scivolare lungo il
crinale di qualche montagna in Svizzera. E invece è arrivata la
telefonata di Bob Geldof e le sue parole hanno cambiato tutto. I
Queen tornano in scena ragazzi, ci ha annunciato Jim Beach ancora
prima di sapere esattamente cosa sarebbe stato questo concerto. Ma
l'occasione naturalmente era troppo ghiotta. Nessuno lo ha detto
chiaramente, ma questa poteva anche essere la soluzione per
recuperare dall'errore sudafricano. Brian ne porta ancora i segni
addosso, con quell'intervento disperato di fronte ai giornalisti per
spiegare le nostre ragioni. Fottuto business, ecco la parola magica
che non abbiamo osato pronunciare. Sarebbe stato più facile
ammetterlo e invece eccoci qui e nemmeno riesco a capire perché Bob
abbia pensato proprio a noi. Ma in fondo il business non manca
nemmeno al Live Aid e i Queen sono pur sempre una grande attrazione.
Prima di dare il nostro
definitivo assenso alla partecipazione allo show ci siamo chiusi in
una stanza, con Jim seduto su un tavolo a far dondolare le gambe come
uno scolaro impaziente. Roger si è acceso una sigaretta e me ne ha
passata un'altra, mentre Brian passeggiava lungo la parete scuotendo
la testa. Il più calmo di tutti, come sempre, era Freddie che ci
fissava con quel suo sorriso da “fidatevi di me, è la cosa
giusta”. Ci sono voluti dieci minuti per decidere che si, in
effetti, suonare in una cosa come il Live Aid poteva avere un senso
per noi. Venti minuti sul palco e via, una cosa senza troppi rischi e
alla fine ce ne saremmo tornati a casa coi nostri nomi incisi in un
evento benefico comunque destinato a restare nella storia. Solo a
parlarne ci sentivamo orgogliosi di essere inglesi e felici di poter
suonare senza dover pensare per forza ai contratti, agli sponsor e a
alle fottute scalette da proporre ogni sera. In un certo senso
sarebbe stato come ai vecchi tempi, quando consumavamo le ruote del
nostro furgone per le campagne della Cornovaglia, Brian con le gambe
sempre troppo lunghe per starci seduto comodamente e io e Freddie che
non ci raccapezzavamo su dove potesse trovarsi quel maledetto pub
scovato chissà come da Roger per tirare su qualche sterlina. Con il
Live Aid di soldi ne avremmo visti ancora meno, ma solo perché la
gloria non ha prezzo. Era questa l'idea espressa da Freddie in quei
dieci minuti e fummo tutti d'accordo con lui.
Nei giorni successivi
abbiamo scelto le canzoni da suonare e il non doverci preoccupare
dello spettacolo ci ha resi più sereni del solito. Le tensioni di
questi ultimi due anni sembrano svanite e anche la mia voglia di
scappare dai Queen è diventata un bisbiglio sommesso. Va tutto bene
e non vediamo l'ora di dare il nostro contributo. Poi arriva il
giorno del concerto e quelle sicurezze si sgretolano e diventano
macerie troppo pesanti da portare sulle spalle. Non avere a
disposizione il nostro palco mi sembra improvvisamente inaccettabile,
quasi fosse un bozzo sicuro in cui le onde disegnate dal pubblico non
possono raggiungerci. Anche esibirci di giorno mi sembra un errore,
forse perché sul palco non ci saranno zone d'ombra in cui rifugiarmi
mentre Freddie fa il suo show e il pubblico non ha tempo di pensare a
me. Alla fine mi dico che sono solamente venti minuti e che se penso
alla musica il resto verrà da sé e tutto fluirà semplice e leggero
come mille altre volte in passato. Questo è il Live Aid e la musica
sta per scrivere una storia che nessuno potrà mai dimenticare. Né è
convinto Bob Geldof e lo siamo anche noi.
I minuti che ci separano
dall'esibizione passano in fretta e mentre ci avviciniamo al nostro
momento, la tensione che ci circonda sale. Tutti i tecnici si animano
all'improvviso e ci ronzano attorno per controllare che gli strumenti
siano in perfetto ordine. Io e Brian imbracciamo basso e chitarra e
proviamo le accordature. Roger beve un sorso di birra dal suo
bicchiere di carta e Freddie saltella prima su un piede, poi
sull'altro e fa schioccare le ossa delle schiena. Mi avvicino agli
altri e sebbene il backstage ricordi certi mercati affollati e in
preda alla confusione, mi rendo conto che essere assieme ci rende
qualcosa di diverso ed unico. I Queen sono sempre stati qualcosa di
più della semplice sommatoria di quattro elementi. Spesso penso a
quanto siamo diversi, a come i nostri caratteri siano destinati a
collidere l'uno contro l'altro. Il fatto di riuscire ad essere un
gruppo così unito, soprattutto durante le avversità, ha un ché di
miracolo che mi fa sorridere tutte le volte, nonostante al contempo
mi spaventi l'idea che la mia vita sia legata a doppio filo a tutto
questo. Ma non c'è più tempo e veniamo rapidamente sospinti verso
l'ingresso al palco. I primi a salire saremo io, Roger e Brian,
mentre Freddie farà la sua piccola entrata trionfale. Oggi non ci
saranno fumo ed effetti speciali, ma basterà lui mentre agita il
microfono al cielo per scaldare la folla. Poco fa ho osservato
quell'oceano di persone, ma entro pochi secondi ne vengo colpito allo
stomaco con una forza dirompente. L'urlo della gente fa vibrare lo
stadio, che pare sollevarsi, simile ad un disco volante pronto a
schizzare verso le stelle. Ma la musica, la nostra musica ci riporta
subito alla realtà, fatta di magia e note e il tempo si ferma, lo
spazio si contrae e non mi chiamo più John Deacon, non sono più
quel ragazzo timido appassionato di elettronica che entra a capo
chino all'Imperial College per sostenere un'audizione per una nuova
band. E non sono nemmeno l'uomo che tante volte sarebbe voluto
fuggire dal successo e a stento ha trattenuto la rabbia quando era
costretto ad assistere ai litigi dei suoi compagni di viaggio. Oggi
sono un membro dei Queen e qui, su questo palco stiamo suonando per
la gente e per la storia.
Osservo Freddie dominare
la folla e mi rendo conto che sono tutti ai suoi ordini. Potrebbe
scatenare una rivolta, potrebbe proclamarsi loro Dio e tutti lo
seguirebbero. Quello che abbiamo di fronte non è il nostro pubblico,
eppure adesso sono tutti nostri fans, come se il resto degli artisti
fosse stato spazzato via. È una sensazione esaltante, simile al
magnetismo che puoi sentire quando stai troppo vicino agli enormi
amplificatori che usiamo in tour. È un'energia galvanica che ti
passa attraverso le ossa e ti entra nel profondo, quasi voglia
ricombinarti il dna stesso per renderti più forte. Ogni tanto guardo
Roger e sento che il feeling con lui è perfetto. Suoniamo
all'unisono, sottolineando ciascuno le note dell'altro, in un
continuo scambio di potenza e precisione. E intanto Brian infiamma la
folla con i suoi assoli e quel sounf che ci ha resi così unici.
Essere nei Queen è stupendo, ancora una volta, e nonostante in
questi pochi minuti non ci sia spazio per riflettere su quanto ci sta
accadendo, scorgo nei sorrisi della gente la certezza che da oggi
siamo leggenda. Magari un giorno la nostra storia finirà o forse uno
di noi deciderà che non ne può più e lascerà gli altri andare
avanti per la loro strada. Ma qualunque cosa faremo, questa giornata
non potrà dimenticarla nessuno, perché noi siamo i Queen e il
pubblico di questo stadio e di tutti gli stadi del mondo canterà le
nostre canzoni e, alla fine, tornerà a casa con la stessa felicità
che anche noi quattro avremo nel cuore.
(NOTA: il racconto che
avete appena letto, pur essendo basato sui fatti accaduti a Wembley
il 13 Luglio del 1985 è un'opera di fantasia e John Deacon ha
“parlato” attraverso l'ispirazione che mi ha guidato nella
scrittura. Non c'è quindi una diretta attinenza con la storia dei
Queen al Live Aid, anche se mi piace pensare che John prima di salire
su quel palco sia stato davvero animato da quel misto di paure e
forza tipico del suo carattere schivo e del suo essere il bassista
della più grande band di tutti i tempi, nda.)