My Life Has Been Saved. Una riflessione personale sugli attentati di Parigi


Novembre è un mese triste per noi fans dei Queen. Giorno dopo giorno veniamo sospinti sempre di più in uno spazio oscuro, quasi privo di luce, e nel debole lucore che resta sottratto alle ombre si staglia la figura di Freddie Mercury, il nostro Fred, che non c'è più da troppi anni e che nonostante tutto è ancora qui con noi. È il privilegio concesso alle leggende, a quegli artisti che sono stati capaci di seminare sul terreno della vita abbastanza da lasciare a noi, che restiamo qui, opere di incommensurabile bellezza. Poi anche per noi sarà tempo di andare, ma saremo subito sostituiti da altri che potranno rimirare le sue canzoni, in un ciclo destinato a perpetuare se stesso. O almeno così ci piace pensare, perché nell'idea della permanenza delle cose si cela la lotta che portiamo avanti tutti i giorni e che chiamiamo col nome di esistenza.


Vita e musica vanno a braccetto fin dalla notte dei tempi e se proprio volessimo rappresentare nelle nostre menti il momento esatto in cui l'umanità a scoperto di essere capace di riprodurre dei suoni, è molto probabile che sullo schermo ideale delle nostre personali fantasie immagineremmo un fuoco che brilla nella notte primordiale e l'eco dei primi tamburi che si spande e fa vibrare i cuori. È una liturgia che si ripete tutte le volte che entriamo in un'arena, un teatro o uno stadio dove è stato montato un palco sormontato da un impianto luci e la nostra band preferita inizia a suonare. Improvvisamente il basso, la batteria e la chitarra intercettano quei primi battiti ancestrali e ne amplificano gli effetti, mentre la voce ci afferra e ci obbliga a cantare e ballare. Al centro, al posto delle fiamme crepitanti di un falò, ci sono i nostri cuori, non per questo meno fiammeggianti. È l'inno alla vita, della voglia di marcare il territorio dell'esistenza col nostro sudore e i sorrisi, che da dentro sbocciano sulle labbra come fiori.

Ma il mondo là fuori talvolta si risveglia preda di un famelico appetito e quello è il momento in cui snuda i denti e prova ad afferrarci alle spalle. Allora la musica cessa all'improvviso, sovrastata dai colpi ritmati di un fucile. L'orecchio dei presente sente ma non percepisce davvero. Poi arriva la consapevolezza e con essa uno tsunami di terrore e tutto si fa buio, i fuochi vengono spenti, uno ad uno con spietata crudeltà.

Tante volte scrivendo su questo Blog mi sono chiesto se fosse giusto deviare dalla traiettoria cui mi sono obbligato all'inizio di questo piccolo gioco personale, ovvero i Queen. Scrivendo nella penombra della mia stanza, illuminato dallo schermo del pc e da una piccola lampada sul tavolo, mi sono interrogato sul valore che può avere il mio pensiero quando la vita, quella vera, irrompe nelle nostre case e spegne tutto, anche la musica che amiamo. In questi due anni mi è capitato di sfruttare i social network per dire la mia, per esprimere cordoglio e punti di vista. Dallo scorso venerdì questa prospettiva è irrimediabilmente mutata, perché in una sala parigina dove si ballava e cantava ha fatto il suo ingresso la morte, la morte puttana, quella che ti ghermisce alle spalle e non ha nemmeno la decenza di farti respirare il suo alito fetido perché tu ti possa preparare ad andare con lei. La chiamano ingiustizia, credo.

In questi tre giorni ho fatto quello che avete fatto tutti voi, ho lasciato che le immagini e le notizie mi colpissero fino ad entrarmi dentro, finché non sono tracimate fuori e mi hanno obbligato a spegnere la televisione, staccare internet e provare a fare altro. Soprattutto mi sono esercitato nel tentativo di isolarmi da tutto, ma sempre con quel peso sullo stomaco pronto a farsi sentire, a sussurrare al mio orecchio che non interessarmi di quanto accaduto equivalesse alla complicità. Naturalmente non è così, eppure il malessere resta, è qui con me e credo che voi sappiate di cosa parlo, per cui perdonatemi se la forma che sto dando ai miei pensieri non è in fin dei conti così precisa.

Ho pensato, lo confesso, che quanto accaduto a Parigi non riguarda solo le persone che sono state effettivamente colpite (abbattute, spezzate) perché in uno di quei ristoranti, oppure allo stadio o al Bataclan potevo esserci io. Oppure tu, che adesso stai leggendo queste parole. Quante volte abbiamo riempito stadi, arene o piccoli pub per ascoltare la musica che ci piace. E quanto volte, finito lo spettacolo, siamo tornati a casa, inebriati dall'adrenalina, increduli di aver finalmente visto i nostri idoli? Sapere oggi che altri ragazzi e uomini e donne come noi non hanno potuto fare altrettanto è raggelante, non perché siamo tutti obbligati a provare empatia e rammarico, ma perché ci piomba addosso il senso di colpa. Perché noi questa sera a casa possiamo ancora fare ritorno. A loro non è più concesso.

In questi pensieri sfilacciati come fili di fumo, rimasti in sospeso sulla mia testa e a cui il vento della riflessione non sa dare una forma, emerge un'idea ed è forse questo il motivo per cui sto scrivendo. Qualcuno ha detto che la vita trionfa sempre sulla morte e questo è vero al di là di ciò in cui crediamo. E io so, come lo sapete anche voi, che la musica è vita, si tratta della sua stessa incarnazione, perché la morte porta con sé il silenzio, mentre un cuore che batte è anzitutto una melodia, la stessa a cui ci aggrappiamo appena nati quando mani benevole ci posano sul seno di una madre o sul petto di un padre commosso. Per questo dico a me stesso che la musica, e quindi la vita, non deve cedere il passo ai colpi di fucile, nemmeno quando questi sono sparati direttamente nella schiena e ci colgono di sorpresa.

Queste sono anche le ore in cui al cordoglio si somma il bisogno di capire quali scelte sono divenute irrevocabili per vincere quella che è a tutti gli effetti una guerra. Non compete a me, né alla maggior parte di noi, proporre soluzioni, tanto più che alla fine è chi ci governa che ha il potere di fare qualcosa. E molto ci sarebbe da dire su chi finanzia il terrorismo, su chi vende armi, addestra miliziani e trae vantaggio da quanto accade in Medio Oriente e in Africa, con tutte le inevitabili ripercussioni che giungono fin qui.

A noi cittadini, a noi che siamo fans di un gruppo rock, cosa resta al di là della paura? Guardando le immagini di Parigi mi è tornato in mente Roger Taylor che sul palco di Sheffield nel 2005 introduceva Say It's Not True dicendo che l'hiv è una malattia che può colpire “me, voi, chiunque”. Il terrorismo è proprio questo, un virus capace di propagarsi intaccando la nostra voglia di vivere, di viaggiare, di conoscere il mondo e altre culture. Qualcuno ha parlato di attacco al nostro stile di vita. Io mi spingo oltre e credo che quanto accade ogni giorno (perché non c'è solo il sangue di Parigi) è una guerra sferrata contro la felicità.

Per questo oggi, e vi prego di accogliere le mie parole come uno sfogo ma anche come il bisogno di parlare ad alta voce per sentirmi meno solo, vi dico che nessuno deve rinunciare a vivere il mondo. A febbraio tanti di noi andranno ai concerti di Brian May e Kerry Ellis e forse nel corso dell'anno ci saranno altri appuntamenti a cui è necessario non mancare, oggi più che mai. Perché se è vero che la musica è vita e trionfa sul silenzio che segue la morte, allora continuare a nutrirci di ciò che amiamo non è solo l'unico mezzo che ci resta a disposizione per vincere la paura, ma è anche la scelta che può farci dire che sì, la nostra vita è salva.



@Last_Horizon